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Marco Michelini | 18 Gennaio 2015

Come ha notato giustamente il Petrocchi, se si pongono a confronto i testi francescani del XIV secolo, con i testi domenicani o con quelli dei gesuati, si ha l’impressione che, mentre gli scrittori domenicani abbandonano le chiuse aule teologiche degli studia sollemnia, i francescani abbandonano invece quelle strade e quelle piazze ove i richiami alla povertà ed alla carità di San Francesco avevano fatto legioni di proseliti, per entrare nelle celle dei conventi a disputare di morale, a raccontare episodi e momenti della gloriosa vita dell’Ordine, a volgarizzare i tesori della spiritualità duecentesca. Negli scritti minoritici, insomma, l’esperienza religiosa non trova facil­mente soluzione in una visione concretamente umana del mondo, ma si attarda a misurare il comportamento degli uomini, i loro vizi e le loro virtù, col metro di aridi schemi imposti dall’esterno, e per questo privi di una precisa rispondenza psicologica. Il concetto di povertà, che nel Duecento si manifestava come un imperioso bisogno dell’anima cristiana di rigettare tutti gli impacci del mondo tentatore, per gli scrittori francescani del Tre­cento diviene un puro tema di teologia morale, un’occasione per sofisticate discettazioni, un motivo non più d’azione ma di riflessione.


 

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Aggiunto anche all’articolo: «Appunti di Letteratura Italiana: Il Trecento»

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