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Dei benefici che la Chiesa trasse dal governo dell’Imperatore Costantino è segno la pacifica elezione di Papa Silvestro[1], avvenuta a pochi giorni dalla sepoltura del suo predecessore.

Silvestro è giudicato generalmente un vescovo di scarso rilievo per la sua attività personale; tuttavia non si può fare a meno di notare che egli, a causa della politica stessa di Costantino, si trovò ad operare in una difficile situazione , nella quale – fin dal primo istante – diede ampie prove della sua abilità e prudenza.

Poiché lo scisma continuava ed i donatisti – come s’è detto – avevano fatto nuovamente appello all’Imperatore, Costantino decise di convocare ad Arles un nuovo sinodo di vescovi, invitandovi anche Silvestro. È chiaro che la posizione di Silvestro diveniva alquanto imbarazzante: sicuramente da un lato egli non voleva né poteva opporsi all’Imperatore, che mostrava in maniera aperta ed inequivocabile la sua benevolenza verso il cristianesimo; ma dall’altro, non poteva neppure accettare e convalidare con la sua presenza quell’assemblea conciliare, che appariva come un giudizio d’appello contro la sentenza formulata dal suo predecessore. Per questi motivi, Silvestro adottò una linea di condotta prudente, inviando al sinodo di Arles come suoi rappresentanti i preti Claudiano e Vito, accompagnati dai diaconi Ciriaco ed Eusebio. Il concilio, comunque, riconfermò la condanna dei donatisti pronunziata da Milziade e, approfittando del trovarsi riunito, trattò anche di altre questioni, formulando alcuni canoni, uno dei quali chiede a Silvestro di notificare a tutti ogni anno la data della Pasqua.

Questi canoni furono inviati a Silvestro affinché li pubblicasse (senza tuttavia sottoporli ad una sua vera e propria approvazione), unitamente ad una lettera sinodale, nella quale i vescovi lamentano la sua assenza, pur constatando ch’egli non poteva abbandonare la città ove avevano risieduto e versato il loro sangue i Santissimi Apostoli Pietro e Paolo. Ed a tale proposito si è da più parti osservato che molto probabilmente quello fu il motivo addotto da Silvestro per non partire da Roma e far rilevare al tempo stesso il carattere e l’importanza della sua sede. Importanza che, nella lettera sinodale, non viene tuttavia chiaramente espressa, sebbene lasci trasparire il riconoscimento di un primato sull’Occidente.

Lo scisma nella Chiesa, comunque, era tutt’altro che ricomposto. I donatisti continuarono ad operare e di loro, nell’anno 316, dovette occuparsi il tribunale stesso dell’Imperatore con sede a Milano, reso edotto da inchieste molto minuziose dei rappresentanti imperiali in Africa e che portò alla formulazione di una nuova condanna[2], senza che tuttavia sortisse alcun effetto. Per arrivare ad una soluzione, esaminata la causa, Costantino decise di buttare sulla bilancia il peso dell’autorità secolare e nella primavera del 317 promulgò una legge severissima contro gli scismatici che ordinava di consegnare le loro chiese. Si innescò in tal modo una reazione a catena: sicuri di se stessi, ostinati nelle loro convinzioni, i donatisti rifiutarono e resistettero. Intervenne allora l’esercito che diede il via alla repressione: scoppiarono torbidi violenti e ci furono vittime onorate al pari dei martiri. L’ostinazione degli scismatici ebbe alla fine la meglio sul potere e Costantino, nel maggio del 321, si rassegnò ad accordare loro la tolleranza[3].

Nel frattempo la rivalità tra Costantino e l’Imperatore d’Oriente Licinio si andava trasformando in aperta rottura. Già nel 316 i due Augusti avevano stabilito che ognuno, indipendentemente dall’altro, poteva emanare leggi e decreti riguardanti solo una delle due parti dell’Impero; si delineava in tal modo quella frattura che il qualche modo precorreva, ancora vagamente, la divisione dell’Impero in due Stati distinti. Nel 324 le tensioni sfociarono nella lotta armata e nell’ennesima guerra civile, anche perché Licinio, a dispetto della politica costantiniana, continuava ad osteggiare apertamente i cristiani. Costantino sconfisse Licinio, che ebbe salva la vita; ma avendo ripreso la lotta, venne eliminato.

Rimasto unico Imperatore, Costantino trovò nell’Oriente problemi analoghi a quelli che gli si erano presentati in Africa. Anche qui la persecuzione aveva lascito strascichi: particolarmente in Egitto dove per le consuete ragioni riguardanti i lapsi era scoppiato lo scisma di Melezio di Licopoli[4]. Ma una questione ben più grave, e che doveva tener agitata e sconvolta la Chiesa per tutti i decenni centrali del secolo, e avere ripercussioni anche in seguito, era sorta sul terreno dogmatico in seguito alla predicazione di un prete alessandrino di nome Ario. Questi, prendendo le mosse dalle teorie di Origene e di altri teologi anteriori, Sosteneva che il Verbo, per mezzo del quale Dio aveva compiuto la creazione, prima di essa non esisteva: aveva dunque avuto origine col tempo, potendosi quindi affermare che «vi fu un quando in cui non v’era». Il Verbo, pertanto, era stato anch’esso creato dal nulla. Certo, Ario non ne faceva una creatura uguale a tutte le altre; ciò non di meno, rendendolo creatura, gli negava l’eternità e la divinità. Tutto questo poteva far sembrare più facile il comprendere come il Verbo avesse potuto unirsi ad una carne umana; ma, appunto per questo, toglieva alla redenzione il suo carattere essenziale. Ovviamente la reazione non si fece attendere: nella Chiesa d’Egitto, così solidamente retta dal vescovo di Alessandria, non si poteva impunemente andare contro la teologia professato dal suo capo. Alessandro di Alessandria[5] riunì un concilio di quasi cento vescovi d’Egitto e di Libia, che anatemizzò gli errori di Ario e lo scomunicò insieme con i suoi seguaci, un piccolo gruppo di altri cinque preti, sei diaconi e due vescovi.

La questione, tuttavia, non rimase limitata all’Egitto. Infatti, Ario non avendo accettato la condanna di Alessandro, cercò appoggi all’estero, in Palestina, come già aveva fatto Origene, presso il dotto Eusebio di Cesarea[6], apologista ed erede di Origene, ma anche nel resto dell’Oriente ed in Asia Minore presso i suoi condiscepoli, come lui allievi di Luciano di Antiochia. A dimostrazione di tutto questo ci è pervenuta una lettera con la quale Ario chiedeva aiuto e sostegno ad uno di costoro, Eusebio di Nicomedia[7], personaggio influente e prototipo del prelato ambizioso ed inquieto del Basso Impero. Su loro iniziativa, dei Sinodi provinciali di Bitinia e di Palestina si opposero alle decisione presa dal Sinodo di Alessandria, riabilitando Ario. In tal modo la contesa veniva ad aggravarsi, opponendo ben presto vescovo a vescovo; e Costantino, che continuava a sostenere il cristianesimo e sperava di trovare in esso lo strumento atto a fomentare e rafforzare l’unità morale dell’Impero, si trovò nuovamente di fronte ad una Chiesa non già unita e compatta, bensì scossa internamente da agitazioni e diatribe, che minacciavano di estendersi ed aggravarsi sempre più. Occorreva pertanto restituirle al più presto la pace e l’unità. Da tempo le questioni dogmatiche e disciplinari erano state risolte nelle riunioni, più o meno numerose, dei vescovi; e a tale sistema Costantino era già ricorso durante lo scisma africano, con risultati che – per il momento – si potevano ritenere abbastanza soddisfacenti.

L’Imperatore pensò dunque di indire un grande Concilio – al quale, a simboleggiare la ricostruita unità dell’Impero, avrebbero dovuto partecipare anche i vescovi dell’Occidente – e che, dalla convocazione ad opera dello stesso monarca, anzi dalla presenza di questi o di un suo rappresentante, avrebbe tratto, agli occhi di tutti, una solennità ancora maggiore. E a riprova dell’onore e della considerazione in cui l’Augusto teneva i vescovi cristiani, egli accordò loro il rango di altissimi funzionari, mettendo a disposizione di tutti coloro che avessero affrontato il viaggio lo stesso cursus publicus.

Nonostante i suoi sforzi, Costantino non riuscì ad ottenere che i trecento vescovi riunitisi a Nicea nel 325 si ripartissero in modo omogeneo tra le diverse province. Nonostante i privilegi accordati dall’Imperatore, infatti, gli ostacoli materiali impedirono a molti vescovi di partecipare e questo spiega la sproporzione riscontrata: più di cento vescovi provenivano dall’Asia Minore, una trentina dalla Siria­‑Fenicia, meno di venti dalla Palestina o dall’Egitto; l’Occidente latino fu a malapena rappresentato ed i tre o quattro vescovi che vi parteciparono probabilmente si trovavano alla corte imperiale per qualche ragione personale, com’è il caso di Osio di Cordova. Anche questa volta – forse con ragioni meno forti che non per il precedente – Papa Silvestro decise di non partecipare, facendosi rappresentare dai presbiteri Vito e Vincenzo. La sua assenza, comunque, creò un precedente: nei successivi concili ecumenici, infatti, la sede di Roma si farà regolarmente rappresentare da Legati.

Possiamo raffigurarci la rosa abbastanza ampia delle tendenze teologiche che a Nicea si delinearono: all’estrema sinistra il piccolo nucleo degli ariani “della prima ora”, spalleggiati dai loro amici, riuniti attorno ad Eusebio di Nicomedia. Più oltre una sorta di “centro‑sinistra”, di cui era il portavoce Eusebio di Cesarea, che associava dei subordinazionisti moderati di tradizione origeniana e quei teologi timidi o incerti più desiderosi di unità che di precisione, e quindi ostili ad ogni formula nuova che possa entrare in contrasto con l’insegnamento tradizionalmente ricevuto, espresso in termini rigorosamente biblici. E poi un “partito di destra”, di coloro cioè che avevano saputo avvertire il pericolo dell’arianesimo e che avevano nel vescovo Alessandro di Alessandria e nel vescovo Osio di Cordova la loro parte maggiormente attiva. A costoro si affiancarono ultraconservatori come Eustazio di Antiochia[8] e soprattutto Marcello di Ancira[9]; in particolare quest’ultimo era così accanitamene anti‑ariano che il suo attaccamento appassionato ed unilaterale al vecchio principio della “monarchia” divina lo portava a cadere nell’eresia opposta e simmetrica, cioè quel modalismo – palese od implicito – che era stato l’errore di Sabellio.

Ben presto, comunque, si formò in seno al Concilio e senza difficoltà alcuna una larghissima maggioranza che condannava gli errori di Ario. Sorvolando deliberatamente le riserve dei vescovi più conservatori, Il Concilio assunse come base la professione di fede proposta da Eusebio di Cesarea, aggiungendo a questo testo di chiarezza un po’ vaga delle precisazioni decisive. Non ci si limitò a proclamare il Figlio «Dio da Dio, Luce da Luce», ma si dichiarò espressamente che egli è Dio vero da Dio vero, generato e non creato, quindi “consustanziale”[10] al Padre. Un termine questo che, sebbene fosse da alcuni vivacemente criticato e lasciasse altri perplessi, aveva il merito di non permettere equivoci.

Nei riguardi della Chiesa di Roma, il Concilio non statuì nulla di nuovo, limitandosi a riconoscere, come materia del tutto pacifica, il suo primato sull’intera Italia, anzi una posizione di preminenza del suo vescovo come metropolitano d’Occidente, mentre consolidava quella del vescovo di Alessandria e fissava il diritto del vescovo della capitale di ogni provincia di confermare quelli delle altre città, eletti con la partecipazione di almeno tre vescovi della provincia stessa.

D’altra parte, sebbene le firme dei rappresentanti di Silvestro figurino in una posizione preminente, i Canoni di Nicea non furono inviati a Roma per l’approvazione. Che ciò accadesse, è affermato in un documento che parla di un Sinodo romano di 275 vescovi, ma si tratta di una falsificazione posteriore, sorta quando, anche per ribadire un principio, si sentì parimenti il bisogno di esaltare la figura di Silvestro, attorno alla quale ricamò la leggenda, non meno significativa e non meno importante storicamente, per le sue conseguenze, della stessa storia, cioè dei fatti realmente avvenuti, ma dalla leggenda abbelliti.

La leggenda, del resto, può esser considerata a modo suo un fatto storico, e questa in modo particolare poiché esercitò larghissima influenza sul mondo medioevale. Infatti, se la Vita di Papa Silvestro nel Liber Pontificalis si compiace di esaltare la figura di Costantino e di tutto ciò che egli fece per la Chiesa di Roma, nonché le sue elargizioni, tutto questo deve derivare senza alcun dubbio da fatti reali: dalla donazione della domus Faustae sul Laterano, con la fondazione della grande basilica, alla erezione di altre chiese e basiliche in Roma, ed all’altra donazione, del terreno sulle pendici del Vaticano, ove la costruzione dell’ancor più grandiosa basilica dedicata a S. Pietro, e posta sopra il monumento, il trofeo, già ricordato con fierezza dal presbitero Gaio, costrinse a enormi lavori di sterro e rassodamento del suolo, come rilevato anche più recentemente dai lavori di scavo. Taluno dubita che si possa ascrivere a Silvestro, come fa appunto il Liber Pontificalis, la fondazione del Titulus Equitii sull’Esquilino[11] poiché esso viene ricordato come Titulus Silvestri soltanto nel sesto secolo; taluno, invece, lo ritiene più antico, come la chiesa a cui Silvestro sarebbe stato addetto prima della sua elezione. Ma anche la leggenda vera e propria, di Silvestro imprigionato da Costantino persecutore e per questo castigato da Dio con la lebbra, ma mondato poi da Silvestro con il battesimo, onde l’Imperatore emana le leggi in favore del Cristianesimo e del pontefice romano; oppure la vittoria del Papa nella disputa con gli ebrei istigati dall’Imperatrice Elena, la quale a seguito di ciò si converte dal giudaismo al cristianesimo, passa in Oriente, vi ritrova la vera Croce, di cui dona le reliquie alla basilica Sessoriana[12] da lei fondata; insomma tutta questa fioritura leggendaria parte da una base di fatti reali poi alterati e confusi: il successivo appoggio dato da Costantino all’arianesimo, la sua precedente “conversione”, la malattia che colpì Galerio prima che in punto di morte promulgasse il suo editto di tolleranza, il battesimo ricevuto da Costantino morente, l’opera di ritrovamento di antiche reliquie cristiane svolta da Elena in Palestina. La leggenda continua narrando di un altro fatto storico: il trasferimento di Costantino in Oriente e la fondazione della città che portò per sempre il suo nome. L’abbandono di Roma da parte dell’imperatore parve, nel momento in cui si andava costituendo lo Stato Pontificio, inspiegabile, se non come un vero e proprio trasferimento di proprietà e sovranità: tutto ciò, come nel desiderio di avvalorare con un titolo antico una realtà politica in atto, sta alla base di un altro falso e di un’altra leggenda, che si sono sovrapposte alle altre ed erano destinate a diventare non solo uno dei testi fondamentali, ma anche uno dei principi essenziali del diritto pubblico e delle dottrine medioevali: la cosiddetta Donatio Constantini. In essa si vide appunto il titolo istitutivo della sovranità della Santa Sede nonché il diritto d’esercitare quel “potere temporale” che fu poi all’origine di molti dei mali che afflissero la Chiesa, allontanatasi dalla povertà evangelica a causa di quella “dote” costituita dall’Imperatore cristiano “al primo ricco patre”,

Per tutti questi motivi Silvestro è diventato uno dei papi più celebri e – senza dubbio anche a causa della data in cui egli viene festeggiato – un santo abbastanza popolare.

*** NOTE ***

[1] 31/01/314 – 31/12/335.

[2] Di quel processo si possiedono i verbali, che rendono molto bene l’atmosfera di terrore poliziesco caratteristica del regime.

[3] A seguito di ciò il partito di Donato si estese e si rafforzò, affermandosi con intransigenza. Quanto abbiamo descritto continuò a ripetersi per tutto il secolo, con la stessa alternanza di repressione e di tolleranza: L’Imperatore Costante nel 347 perseguitò nuovamente i donatisti; Giuliano, invece li favorì trovando comodo che i cristiani si combattessero tra loro; Graziano confiscò nuovamente le loro chiese, e così via, fino alla svolta finale del 411, quando l’Imperatore Onorio riunì un grande contraddittorio in cui per l’ultima volta i due partiti si affrontarono. Ancora una volta i donatisti furono dichiarati fuori legge, ma era ormai troppo tardi: di lì a poco l’invasione dei Vandali (429) decretò la fine dell’Africa romana.

[4] Melezio, vescovo di Licopoli, si urtò nel 306 con il capo dell’episcopato Egiziano, il futuro martire Pietro d’Alessandria, allora in carcere, del quale giudicava troppo mite l’atteggiamento verso i lapsi. Arrestato a sua volta e deportato nelle miniere di Pheno in Palestina, Melezio vi continuò l’agitazione, moltiplicando le ordinazioni e, dopo il suo ritorno, organizzando in Egitto una gerarchia scismatica, «la chiesa dei martiri», in contrapposizione alla gerarchia cattolica.

[5] Alessandro, santo, patriarca di Alessandria (? ca. 250 – Alessandria 326). Succeduto al patriarca Achilla nel 312, avvertì subito l’eresia che Ario, membro della sua Chiesa, cominciava a propagare. Riuscito vano ogni richiamo all’ortodossia, A., fatto condannare Ario, indirizzò lettere a numerosi vescovi per metterli in guardia contro la propaganda ariana. Nel Concilio di Nicea ebbe una parte di primo piano, coadiuvato da Atanasio, allora diacono. Nonostante l’invito dell’Imperatore Costantino e di Eusebio di Nicomedia, rifiutò di riaccogliere Ario nella sua Chiesa.

[6] Eusebio di Cesarea scrittore e storico (Cesarea 265 ca – ivi 340). Divenne vescovo di Cesarea nel 313. Difese l’eretico Ario del quale redasse una Vita, ma rimase sempre nell’ortodossia. Nel 325 fu un autorevole membro del concilio di Nicea , durante il quale tentò di riconciliare Ario e i suoi oppositori proponendo l’adozione di un testo vago nella formulazione e conciliante. Scrisse la Storia ecclesiastica, dalle origini sino al 324, una preziosa raccolta di documenti della Chiesa primitiva che è considerata la prima storia della Chiesa. Ammiratore dell’Imperatore Costantino, ne scrisse la vita e fu da lui molto benvoluto. Altri suoi scritti sono la Preparazione, la Dimostrazione evangelica, l’Onomasticon, opera di geografia e topografia biblica, e la Cronaca (più esattamente, Canoni cronologici ed epitome di storia dei Greci e dei Barbari), compendio di storia universale, pubblicato verso il 303. Scritta con il duplice proposito di stabilire una sincronia fra le tradizioni storiche pagane e quelle giudaiche e di legittimare il cristianesimo, ricongiungendolo alle prime origini della storia umana, l’opera di Eusebio muoveva dalla nascita di Abramo (collocata nel 2016 a. C.) e giungeva fino a Diocleziano; ma del testo originario greco rimangono solo frammenti. San Girolamo tradusse la Cronaca di Eusebio di Cesarea in latino e la continuò fino alla morte di Valente (378), facendone una delle opere storiche fondamentali del Medioevo.

[7] Eusebio Vescovo di Nicomedia (ca. 280-341), fu il leader del partito ariano nella prima metà del IV° secolo. Probabilmente E. incontrò Ario quando ambedue frequentavano la scuola di Luciano di Antiochia, e da quest’ultimo vennero convinti che il Figlio di Dio non poteva essere Dio, in quanto Egli era stato creato da Dio Padre, concetto, poi, ripreso da Ario. E., in seguito, ascese a posizioni di massimo livello della gerarchia della Chiesa: il suo ascendente sull’Imperatore Costantino fu elevato e gli permise di rinforzare la posizione degli ariani. Durante il Concilio di Nicea l’intervento di E. non fu tra i più felici: egli lesse un documento, che riassumeva le posizioni ariane, affermando molto palesemente che Cristo non era Dio. Questa terminologia senza compromessi gli alienò i favori dei moderati, che, dopo estenuanti discussioni, aderirono al cosiddetto Credo Niceno. L’arianesimo fu condannato; Ario ed E. furono mandati in esilio. Ma, nonostante la vittoria degli ortodossi al Concilio, gli ariani rimasero in tale maggioranza, che nel 328 Costantino decise di richiamare E. dall’esilio e di offrirgli il seggio di vescovo di Costantinopoli: il momento di massima gloria per E. fu quando, nel 337, Costantino in punto di morte decise di farsi battezzare da lui, suo vescovo ariano. Inoltre, dalla sua influente posizione, E. si adoperò per contrastare il suo mortale nemico, Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, riuscendo più volte a farlo condannare all’esilio. Nel 341, sotto il coordinamento di E., i vescovi ariani organizzarono un concilio ad Antiochia dove venne proposto, senza molto successo, una formula di compromesso, che ponesse l’accento sulla coesistenza eterna di Cristo e del Padre, sorvolando, però, il punto controverso della consustanzialità (“il Figlio è della stessa essenza della divinità e della stessa volontà del Padre”).

[8] S. Eustazio nacque a Side, in Panfilia nel 270, e diventò vescovo di Berea in Siria, da dove si trasferì ad Antiochia, diventandone il vescovo, nel 323. Scrisse il De Engastrimytho, un trattato contro l’interpretazione allegorica attribuita alla Bibbia da Origene. Fu uno dei più fieri difensori del credo ortodosso al concilio di Nicea: tale fu il suo impegno che il concilio di Antiochia del 331, a maggioranza ariana, lo condannò per sabellianismo. L’imperatore Costantino ratificò la condanna, esiliando E. a Traianopoli in Tracia, dove egli morì nel 360 (secondo altri fonti già nel 336/337). Eustazio è stato nominato santo sia dalla Chiesa Cattolica, che da quella Greca Ortodossa. In seguito al suo esilio, i suoi sostenitori diedero vita ad una comunità scismatica denominata degli eustaziani, i quali si opposero strenuamente, nel 360, contro il nuovo vescovo di Antiochia, Melezio, sebbene questi fosse stato eletto alla carica di vescovo con i voti congiunti di ariani e ortodossi.

[9] Marcello era il vescovo di Ancira (la moderna Ankara) in Asia Minore. Al concilio di Nicea del 325, fu un fiero oppositore dell’arianesimo e sostenitore della formula ortodossa approvata per la natura di Cristo. Tuttavia, nel suo fervore antiariano, M. fece l’errore opposto, cioè di scivolare nel monarchianismo modalista di Sabellio, anzi, secondo i suoi antagonisti ariani, in un cripto-sabellianismo. In particolare M. scrisse un libro contro l’esponente ariano Asterio di Cappadocia, sostenendo che, nell’ambito dell’unità di Dio Padre, il Figlio (Logos) era emerso come potenza (dynamis) esternata in occasione della creazione e diventato persona solamente durante l’incarnazione in Gesù Cristo, mentre lo Spirito Santo era emerso durante la Pentecoste. Alla fine di tutti i tempi ed esaurita la loro funzione, queste due entità sarebbero stati riassorbiti da Dio Padre, del quale, quindi, sarebbe stata restaurata la piena unità. M. fu quindi per gli ortodossi un imbarazzante alleato per le sue idee. Nel 336, durante il Concilio di Costantinopoli, presieduto da Eusebio di Nicomedia, M. fu condannato per sabellianismo e dichiarato decaduto dalla sua sede vescovile e al suo posto venne eletto  Basilio di Ancyra. Tuttavia, alla morte dell’Imperatore Costantino (337) M. ritornò alla sua sede, da dove, però fu nuovamente espulso nel 339. Fu riabilitato dal Papa Giulio I e dichiarato ortodosso, ma non si sa se successivamente M. abbia potuto coprire il suo ruolo almeno prima del 343, quando il Concilio di Sardica, a maggioranza ortodossa, essendo stato abbandonato dagli ariani, ratificò il reintegro di M. nella sua sede. Pare comunque che M., di nuovo condannato nel 344 dal sinodo “ariano” di Antiochia, avesse avuto parecchi problemi nel rientrare ad Ancira, a causa dell’opposizione della popolazione, favorevole a Basilio. Infine M. fu deposto dal vescovo Macedonio di Costantinopoli e definitivamente sostituito da Basilio nel 353. M. morì ca. nel 374, ma solo nel 381 il concilio di Costantinopoli si pronunciò contro lui e i suoi insegnamenti. In particolare il verso del credo niceno “e il suo regno non avrà fine..” fu appositamente aggiunto per combattere l’idea di M. di un Figlio non eterno.

[10] Letteralmente: «della medesima essenza».

[11] L’attuale S. Martino ai Monti.

[12] S. Croce in Gerusalemme.


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