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Marco Michelini | 10 Gennaio 2020

Linea biografica

Giovanni Giorgio Trissino nacque a Vicenza l’8 luglio 1478 da Gaspare (1448‑1487), uomo d’armi e colonnello al servizio della Repubblica di Venezia e da Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese. Studiò greco a Milano sotto la guida del dotto bizantino Demetrio Calcondila e poi filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno[1]. Da questi maestri imparò l’amore per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita. Alla morte di Calcondila nel 1511, Trissino fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Nel 1494 sposò Giovanna, figlia del giudice Francesco Trissino, sua lontana cugina, da cui ebbe cinque figli e che morì nell’aprile del 1505.

Sostenitore dell’Impero come istituzione, Il Trissino fu accusato di spirito antiveneziano ed esiliato dalla Serenissima. Intraprese così diversi viaggi tra Venezia, Bologna, Mantova, Milano e Padova, dove riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri. Fu poi a Firenze, dove entrò nel circolo degli Orti Oricellari, e dove – fra il 1513 e il 1514 – compose la tragedia Sofonisba.

In seguito si recò a Roma, dove stampò nel 1524 la Sofonisba (che dedicò a papa Leone X), e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (che dedicò a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva l’inserimento nell’alfabeto latino di alcune lettere greche per rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune consonanti. Sempre a Roma, nel 1529 Trissino diede alle stampe alcuni testi fondamentali: la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia, Il castellano, le Rime e le prime quattro parti della Poetica (trattato ispirato alla Poetica di Aristotele, da poco riscoperta). Queste opere sollevarono grande clamore per la loro arditezza nella nascente letteratura italiana, poiché nessuno prima di allora aveva osato riformare addirittura l’alfabeto, né aveva avuto l’ardire di cancellare quei generi letterari in uso fin dal Medioevo (sacre rappresentazioni e poema cavalleresco) per riportare i vita quelli antichi (tragedia, commedia e poema epico).

Rientrato a Vicenza, dopo la revoca dell’esilio, Trissino sposò nel marzo 1523 Bianca, figlia del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, dalla quale ebbe due figli. La coppia si separò poi nel 1535, quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì il 21 settembre 1540. Nel 1547‑48 diede alle stampe – dedicandolo a Carlo V – il suo poema in 27 canti L’Italia liberata dai Goti, ch’era già iniziato ai primi del Cinquecento, e nel 1549 la commedia i Simillimi. Frattanto nella sua villa di Cricoli, alle porte di Vicenza, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine, e qui il Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell’architettura, Andrea Palladio[2], del quale fu mentore e mecenate, e che portò con sé nei suoi viaggi, educandolo alla cultura greca.

Trissino morì a Roma nel dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant’Agata alla Suburra.

 

Opere e fortuna

Personaggio di spicco della cultura rinascimentale, notissimo al proprio tempo, il Trissino incarnò perfettamente il modello dell’intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò, infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che riguarda la cultura e la lingua greche, sull’esempio delle quali voleva rimodellare la poesia italiana.

Egli progettò ed attuò, infatti, una imponente riforma della lingua e della poesia italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele (da poco riscoperta), i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte da Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia; un programma in piena antitesi sia con la moda del petrarchismo di Pietro Bembo, sia con quella del romanzo cavalleresco, incarnato supremamente dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

Il programma di riforma venne esposto, come abbiamo già detto, negli anni 1524‑1529 attraverso varie opere: l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, Il castellano, i Dubbii grammaticali e la Grammatichetta, e la Poetica. Tutte queste opere, unitamente alla riscoperta del trattato dantesco, suscitarono grande clamore e numerose polemiche, che si protrassero  anche dopo la morte del loro autore.

Nell’Epistola, che è un vero e proprio trattato di ortografia e di ortofonetica, il Trissino propose di utilizzare alcune vocali e consonanti dell’alfabeto greco per distinguere suoni diversi che nell’alfabeto italiano ancora oggi vengono riprodotti con la medesima grafia, in particolare le vocali e ed o aperte, le e chiuse, la z sorda e sonora, le i e le u con valore di vocale e di consonante; inoltre egli propose di utilizzare la z in luogo della t in quelle parole di derivazione latina che terminano in tione (oratione → orazione) e di distinguere sistematicamente nella scrittura la u dalla v. Queste sue proposte, nei secoli successivi, vennero accolte, mentre le atre furono respinte.

Tutte queste idee vennero riproposte ne Il Castellano – un testo in forma di dialogo sulla teoria della lingua italiana – opera nella quale il Trissino espone il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto, fondato in parte sull’uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli autori della tradizione letteraria, in particolar modo Dante ed Omero, e che, soprattutto, fosse aperto ad una collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo del toscano trecentesco, accettando anche l’inserimento di neologismi e di dialettismi.

Ma è soprattutto con la Poetica – in pratica un manuale di teoria dei generi letterari –  che il Trissino scrive la sua opera teorica fondamentale (cioè che riassume tutte le sue teorie grammaticali e linguistiche, dettando però nuove regole sulla metrica e sui generi poetici), non solo perché essa rappresentava il primo libro di poetica in Europa ad essere modellato sulla Poetica di Aristotele, o perché per secoli fu destinata a fama duratura in tutto il continente, ma soprattutto perché nella società rinascimentale era tutt’altro che banale e senza rischi l’idea di riportare in auge generi letterari trascurati di fatto da secoli e secoli, nonché lontani per gusto e ispirazione dalla cultura del tempo. E va detto comunque che, se per quanto attiene alla poesia egli – seguendo Dante – si basi sulla tradizione occitana, siciliana, stilnovista, dantesca e petrarchesca, o per la metrica saccheggi il trattato di Antonio da Tempo[3], proponendo vecchie forme poetiche rigettate dal Bembo (ballate, seventesi, ecc.), egli da una parte stabilisce nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il poema epico[4] (attribuendogli un alto valore morale e politico, profondamente pedagogico), e dall’altra tratta della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e latino, proponendo per il poema epico l’endecasillabo sciolto. Oltre al recupero e alla trattazione del poema epico, il Trissino analizza la tragedia, la commedia e l’ecloga teocritea (tutti generi ripresi dal mondo classico), assegnando alle prime due le regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo, di luogo e d’azione.

Oltre agli scritti linguistici il Trissino scrisse anche delle opere poetiche: la Sofonisba (1524), le Rime (1529), L’Italia liberata da’ Gotthi (1547‑1548) e i Simillimi (1549). La Sofonisba è la prima tragedia regolare (che rispetta cioè le unità aristoteliche di cui s’è detto sopra) della letteratura europea ed ebbe grande fortuna, specialmente in Francia. Scritta in versi sciolti e divisa in quattro quadri da cori rimati (alcuni dei quali sono canzoni petrarchesche e altri sono canzoni pindariche, tratta un argomento storico preso da Tito Livio: Massinissa, re dei Massili, dopo aver combattuto gloriosamente in Spagna per i cartaginesi contro i romani nel 211 a.C., è costretto,  dopo la morte del padre, a ritornare in Africa per ristabilire il proprio potere; perso il regno per opera di Siface, re della Numidia, per vendicarsi si allea con i romani e con la propria cavalleria contribuisce alle vittorie romane fino alla battaglia sul fiume Ampsaga nel 204 a.C., in cui Siface viene fatto prigioniero. Qui si innesta l’episodio storico di Sofonisba, moglie di Siface e figlia del cartaginese Asdrubale che, condotta prigioniera al campo di Scipione, si uccide con il veleno. Il Trissino, modificando in parte i fatti e restringendo il contenuto ai capitoli che trattano dell’amore tra Massinissa e Sofonisba, dopo la sconfitta di Siface, suppone che prima di sposare Siface, la donna fosse stata promessa dal padre Asdrubale a Massinissa, il quale, proprio a seguito della mancata parola, si schiera contro la parte cartaginese. La trama mostra numerose incoerenze e contraddizioni, a dimostrazione del fatto che al Trissino non interessava né la storia, né la contestualizzazione dell’episodio, ma che gli premeva piuttosto dimostrare il proprio valore di dotto umanista. La tragedia venne recitata per la prima volta nel 1562, durante il carnevale di Vicenza, e riscosse, tutto sommato, un discreto successo.

Scarso valore hanno le Rime, nelle quali il modello petrarchesco si mescola, come s’è detto, con la poesia occitana, quella siciliana, quella stilnovistica e dantesca, nonché con quella dei poeti quattrocenteschi.  Mentre L’Italia liberata da’ Gotthi, un vastissimo poema di ventisette canti in endecasillabi sciolti, iniziato fin dai primi anni del 1500, non riesce ad andare oltre l’idea che ne determinò la composizione (esplicitata nella dedica a Carlo V): “ammaestrare” cioè  l’Imperatore, non solo attraverso dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte militare ecc. La trama è tratta da un avvenimento storico, cioè la guerra gotica tra l’Imperatore Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l’Italia, che viene raccontato dall’inizio alla fine, ed i personaggi che ruotano attorno ad essa sono specchio di altrettante virtù o vizi da correggere. Il poema suscitò critiche violentissime per la sua imitazione pedissequa dei valori dell’eroismo classico, per l’attenzione estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi. La solennità dell’argomento e le lunghe digressioni erudite, con descrizioni di accampamenti, armature, monumenti, eserciti, giardini ecc., vennero giudicate soffocanti e noiose, mentre lo stile del Trissino venne condannato perché troppo fiacco, stereotipato e prosaico.

I Simillimi, ultima opera stampata dal poeta, sono una commedia regolare, nella quale – secondo quanto espresso dall’autore stesso nella dedica al Cardinale Farnese – risultano evidenti i debiti verso situazioni e tipi della commedia classica[5], che il Trissino volle conciliare con la tecnica degli esempi ellenici; per tale motivo egli soppresse il prologo ed introdusse il coro. Anche qui il testo è costituito da versi sciolti, mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.

Il sistema letterario ed onnicomprensivo del Trissino, come viene esplicitato nella Poetica, per il quale ogni genere letterario è regolato in maniera specifica, nei secoli successivi divenne un punto di riferimento ineludibile, non solo in Italia ma in molti paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Anche l’invenzione del verso sciolto sarà centrale nella storia letteraria europea, anche se troverà il proprio fulgore soltanto alla fine del secolo, quando sarà utilizzato in opere imponenti come la traduzione dell’Eneide di Annibal Caro o nel poema del Mondo creato del Tasso. Anche il desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi letterari sui modelli classici continuerà a vivere in altri autori e, sopra tutti, in Gabriello Chiabrera che, in pieno barocco, fece rivivere le forme metriche del Trissino con insuperabile eleganza.

Al contrario delle sue teorie letterarie, le opere poetiche del Trissino non incontrarono lo stesso favore, tanto che, sebbene fossero conosciute e lette, non furono mai amate ed imitate. La stessa Sofonisba, ch’è sicuramente l’opera migliore del Trissino, non aiutò la diffusione in Italia della tragedia ispirata ai modelli greci; anzi, già alla metà del secolo essa venne abbandonata e soppiantata dalla tragedia di stampo senechiano. Diversa fortuna ebbe invece in Francia, dove l’influenza della Sofonisba sarà molto forte, poiché il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci a quelli latini.

Anche L’Italia liberata da’ Gotthi sarà spesso ricordato da tutti gli autori epici dell’epoca, e persino il Tasso la cita spesso nei suoi Discorsi del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene ben presente non solo come modello teorico, ma anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata.

*** NOTE ***

[1] Niccolò da Lonigo, detto Leoniceno, (Lonigo, 1428 – Ferrara, 1524), medico, botanico ed umanista, fu Discepolo di Ognibene Bonisoli, dal quale imparò il greco a Vicenza. Trascorse parte della giovinezza a cercare rimedi per l’epilessia, di cui soffriva, riuscendo infine a sconfiggerla. Laureatosi in medicina presso l’università di Padova nel 1453, si dedicò poi all’insegnamento della stessa disciplina, unitamente alla filosofia naturale. Nel 1464 si trasferì a Ferrara per risiedervi stabilmente, tranne che nel periodo fra il 1508 e il 1509 in cui fu a Bologna. Al 1492 risale il suo Plinii ac plurium aliorum, nel quale per la prima volta si cercava di emendare la Storia naturale di Plinio, evidenziandone gli errori. Nel 1497 il Manunzio gli pubblicò il trattato De epidemia quam Itali morbum Gallicum vocant, nel quale il Leoniceno ipotizzava un’eziologia naturale della sifilide contrapposta alle tradizionali spiegazioni soprannaturali, trattato che nei secoli successivi risultò dirimente per impostare un approccio scientifico alla malattia. Con il Manuzio collaborò anche nella ricerca di codici che si rivelarono fondamentali per la stesura della editio princeps delle opere di Aristotele e di Galeno. Si distinse anche per alcune dotte traduzioni di Appiano di Alessandria, Dione Cassio, Luciano, Procopio di Cesarea e Tolomeo. Al 1519 risale, invece, l’Antisophista, un trattato di stampo anti-sofista che fu particolarmente lodato da Paolo Giovio.

[2] Andrea di Pietro della Gondola, detto Palladio, (Padova, 1508 – Maser, 1580) nacque da famiglia di umili origini: il padre era mugnaio e la madre Marta, detta la Zoppa, era un casalinga. A tredici anni Andrea iniziò a Padova l’apprendistato di scalpellino, e vi restò fino a quando, nel 1523, la famiglia si trasferì a Vicenza. Tra il 1535 e il 1538 conobbe il Trissino, che lo avviò agli studi umanistici e che gli diede il nome di Palladio, portandolo con sé nei suoi viaggi a Roma, fondamentali per la sua formazione. Collaborò con Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, che stava traducendo dal latino e commentando il De architectura di Vitruvio, disegnandone le illustrazioni. Dopo la morte del Trissino il Barbaro divenne il protettore del Palladio, e insieme si recarono a Roma per preparare la prima edizione e traduzione critica del trattato di Vitruvio, poi stampata a Venezia nel 1556. Fondamentale è il celebre trattato palladiano I quattro libri dell’architettura, pubblicato a Venezia nel 1570, che definì i canoni classici degli ordini architettonici, la progettazione di ville patrizie, di palazzi pubblici e di ponti in legno o muratura. Muovendo dall’insegnamento di Vitruvio, il Palladio restituì all’attualità le tipologie della casa e del tempio classico. Concepì l’architettura come organizzazione di spazi regolati da leggi matematiche e armoniche e progettò le facciate in funzione della planimetria e della volumetria interne. La sua opera influenzò lo sviluppo dell’architettura europea e americana: sono infatti neopalladiani molti edifici costruiti nei neonati Stati Uniti d’America come la Casa Bianca ed il Campidoglio a Washingtonn nonché altri edifici in Virginia e in Louisiana.

[3] Antonio da Tempo, nacque probabilmente a Padova verso la fine del XIII secolo dal giudice Buzzacarino di Antonio Panevino, appartenente ad una antica famiglia ghibellina padovana. Esiliato con la sua famiglia nel 1313-14 e nuovamente nel 1319, poté ritornare nella sua città natale nel 1321. Conosciuto per le sue rime di corrispondenza con alcuni poeti del tempo, deve la sua fama al Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, un trattato di metrica volgare dove egli stesso compone gli esempi per spiegare in che cosa consistano il sonetto, la ballata, la canzone, il rotundellus, il madrigale, il serventese e il motus confectus.

[4] Il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica costituita dall’intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall’inizio alla fine.

[5] I Menaechmi di Plauto.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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