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Marco Michelini | 24 Marzo 2020

Sul finire del secolo XV si sviluppa la letteratura maccheronica, alle cui radici si possono rintracciare molteplici tradizioni di mescolanza linguistica, che sorgeva in maniera del tutto spontanea dagli scambi tra le diverse lingue, sia nelle pratiche scolastiche che istituzionali, e che giungeva spesso ad operare sulla più avveduta produzione letteraria.

In questa amalgama di linguaggi, che aborre dal monolinguismo, un ruolo privilegiato era toccato all’intreccio tra il latino e i volgari nelle più varie sfumature regionali, raggiungendo una vitalità tutta particolare nei linguaggi usati dai predicatori. «Al più vasto conflitto andava d’altra parte aggiungendosi, dopo il primo imporsi del prestigio del toscano letterario, un ulteriore conflitto tra toscano e dialetti locali, con aspetti diversi da regione a regione e con manifestazioni particolarmente vigorose nell’Italia padana. Questa situazione conflittuale agiva in modo più diretto sui luoghi in cui il latino era di uso corrente, specialmente negli ambienti universitari, in quelli giuridici e medici, in quelli umanistici e nei loro vari rapporti e contrasti: ne sorgevano occasioni di incontro e scontro tra la consuetudine con i classici, la pratica del latino umanistico, quella più rozza e ancora “medievale” del latino scolastico, i linguaggi tecnici e specialistici, gli inevitabili riferimenti al volgare»[1].

Geograficamente parlando la letteratura maccheronica si sviluppa in Lombardia, dilatandone però l’estensione all’area che fu propria dell’accezione medievale e, in particolare dantesca del termine, che abbracciava tutta la Padania. Se infatti l’ambiente universitario di Padova fu il centro principale della produzione maccheronica prefolenghiana (la prima Macaronea, una novella della quale ci sono pervenuti settecento esametri, è dovuta al padovano Tifi Odasi[2]; del cremonese Matteo Fossa (??-1516) è invece la Virgiliana, dove si narrano le tradizionali beffe ai danni dei villani), non mancò una Macaronea contra Savoynos, dovuta a un Bassano Mantovano, indignato contro il trattamento eccessivamente fiscale al quale era stato sottoposto da un doganiere nei pressi di Vercelli; ad essa, infine, rispose la Macaronea contra Macaroneam Bassani, dovuta all’astigiano Gian Giorgio Alione[3], operetta  interessante perché rappresenta uno dei pochissimi esemplari di letteratura maccheronica in territorio piemontese.

Fu comunque durante un soggiorno a Padova che Folengo venne a contatto con questa letteratura, che si valeva di un linguaggio dalle caratteristiche particolari. Il latino medievale, che per secoli aveva costituito l’unica valida koinè di comunicazione durante il periodo di gestazione dei volgari autonomi e distinti, sopravviveva vigorosamente alla restaurazione filologica del latino classico operata dagli umanisti, in particolare sotto le specie giuridica ed ecclesiastica. In questo ambito, notai e curati incolti infarcivano il loro frasario di spropositi e strafalcioni, che si insinuavano soprattutto nelle circostanze, lessicali, morfologiche e sintattiche, in cui latino e volgare presentavano grossolane parvenze di equivalenza (era il latinus grossus degli indotti, detto poi macaronicus da macarones, «gnocchi»). Questo fenomeno, è chiaro, trovava il più fecondo campo di manifestazione là dove, come avveniva nel caso dell’italiano, il volgare sotteso al latino meno si discostava dalla lingua d’origine, offrendo addirittura, nei confronti di essa, la parvenza di una insidiosa mimesi. Era il volgare a prevaricare sul latino, sia quando si ribaltava in latino una locuzione di struttura e andamento prettamente volgare, sia quando, a causa dell’ingannevole omofonia, si fraintendeva il valore semantico delle parole, o si coniugava e declinava secondo desinenze sbagliate. Ma accadeva altresì che fosse il latino a prevaricare sul volgare, operando aggressivamente contro la stessa realtà quotidiana, più “bassa e vile”.

La poesia maccheronica non ebbe epigoni degni di nota (se si eccettua il secentesco Cesare Orsini, Magister Stopinus[4]); vale invece la pena di rilevare l’esistenza, pressoché contemporanea, di un suo doppio, il genere pedantesco, nel quale si poneva in caricatura il linguaggio infarcito di citazioni latine (ma per lo più scorrette, e introdotte a sproposito) dei pedanti, degli accademici, degli eruditi pontificanti dal pulpito di una fragile dottrina. Verso la metà del secolo il linguaggio pedantesco fu utilizzato dal vicentino Camillo Scroffa[5] nella sua opera Cantici di Fidenzio Glottocrisio ludimagistro, che in versi narra l’amore del magister Fidenzio per il leggiadro studente Camillo. Ma il gergo pedantesco esisteva da almeno mezzo secolo nell’uso prosastico e comico, e servì a caratterizzare il personaggio del saccente tronfio, che divenne ben presto il Pedante (a partire dalla pubblicazione della commedia omonima di Francesco Belo[6], nel 1538), personaggio fisso del repertorio comico cinquecentesco, fino al culmine raggiunto con la Commedia dell’Arte.

*** NOTE ***

[1] Giulio Ferroni, Teofilo Folengo e la letteratura macaronica – I primi macaronici, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 379.

[2] Tifi Odasi, al secolo Michele di Bartolomeo degli Odasi (Padova, 1450 ca. – Padova 1492) era figlio di Bartolomeo da Martinengo e Sara da Camarano, nonché fratello del noto umanista Lodovico Odasio. Secondo il costume umanistico, assunse il nome di Tifi, il pilota degli Argonauti. Autore di mediocri rime in volgare, scrisse la Macharonea (1490), poemetto in esametri in cui sono narrate le burle di un gruppo di buontemponi a uno speziale che si finge negromante. L’opera è caratterizzata da un violento espressionismo, che non oltrepassa però il limite del gusto caricaturale.

[3] Gian Giorgio Alione (1460 ca. – 1521 ca.) appartenne ad una delle più nobili e antiche famiglie di Asti, insignita di cariche pubbliche fin dal secolo XII. Compose in francese canzoni di carattere religioso, e un Chapitre de liberté, nel quale, accanto ad affermazioni generiche di lode e amore per la libertà, il poeta manifesta il suo odio per i vicini lombardi. Scrisse anche opere dialettali e dieci farse, vivo esempio di teatro popolare comico, colorito e spregiudicato.

[4] Cesare Orsini, in arte Magister Stopinus (Ponzano Superiore, 1571 – 1640 ca.), rimasto orfano da bambino fu allevato da uno zio ecclesiastico, che gli diede una solida educazione umanistica. Sui vent’anni emigrò in cerca di fortuna e peregrinò fra le varie corti dell’Italia settentrionale facendo il segretario di nobili e prelati. Fu dapprima presso i Gonzaga di Mantova, poi, per una ventina d’anni, fu segretario del patrizio veneziano Marcantonio Memmo e, in seguito, fu a Ferrara, come segretario del cardinal Bevilacqua. Per parecchi anni compose alcune raccolte di versi d’amore in italiano secondo i dettami dello stile barocco, ma ebbe scarso successo. Alla fine della sua vita si volse allora alla poesia maccheronica e in questa ottenne maggiore apprezzamento. I Capriccia, che uscirono sotto lo pseudonimo Magister Stopinus e furono composti sull’esempio delle opere di Merlin Cocai, consistono in otto macaroneae e dodici elegie. Le macaroneae hanno carattere paradossale, secondo l’uso barocco: cinque di esse consistono nelle lodi rispettivamente dell’arte di rubare, dell’ignoranza, della pazzia, della bugia e dell’ambizione; un’altra tratta amaramente delle malizie delle puttane; vi sono infine la lamentazione funebre per una gatta uccisa da un soldato, e la lamentazione per la podagra e la chiragra che affliggevano l’autore. Evidenti sono gli effetti satirici e la satira di costume.

[5] Camillo Scroffa (Vicenza, 1526 ca. – Vicenza, 1565), laureatosi in giurisprudenza all’Università di Padova, esercitò la professione di avvocato a Vicenza e a Venezia. La sua fama rimane però legata ai Cantici di Fidenzio Glottocrisio ludimagistro, singolare canzoniere amoroso composto intorno alla metà del Cinquecento. Nell’opera vengono felicemente satireggiate due diverse manie del grammatico Pietro Fidenzio Giunteo da Montagnana (valente letterato suo contemporaneo e docente nello studio di Padova), noto anche come Glottocrisio (cioè “lingua d’oro”): la loquela farcita di affettati latinismi e l’infatuazione per il bel discepolo Camillo (probabilmente Camillo Strozzi, conte di Montalto). Cantando maliziosamente gli eccessi d’amore socratici, lo Scroffa non si limita a ridicolizzare la pedanteria linguistica di un “ludimagistro” (cioè “maestro di scuola”) culturalmente arretrato, ma attua anche un efficace ribaltamento comico del trito formulario della lirica petrarchesca.

[6] Francesco Belo, commediografo italiano del XVI secolo, era probabilmente romano di origine, come risulta dalla stampa delle sue opere. Sarebbe nato agli inizi del 1500 da un certo Ugolino, originario di Roccacontrada, e avrebbe frequentato, da studente, l’Università di Perugia. L’unico dato certo, però, della sua biografia è l’amicizia con il nobile romano Francesco Orsini, che lo aiutò più volte finanziariamente, stimolandolo a riprendere gli studi che aveva abbandonato. Quanto alla sua attività di scrittore, sappiamo soltanto di una sua opera giovanile Laberinto d’amore, pubblicata nel 1524 e non più ritrovata, e di due commedie: Il Pedante del 1529 e Il Beco del 1538.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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