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Marco Michelini | 6 Maggio 2020

Linea Biografica

Nato a Firenze nel 1513 da famiglia di modesta condizione sociale[1], Anton Francesco Doni – dopo brevi soggiorni a Siena e ad Arezzo tra il 1530 e il 1535 – intraprese la carriera ecclesiastica ed entrò nell’ordine dei Serviti presso il convento dell’Annunziata del quale farà parte, svolgendovi anche l’incarico di maestro di dottrina, fino al 1540, anno in cui decise di abbandonare la Regola dei Serviti per cercare, miglior fortuna fuori Firenze. Si recò a Genova, ad Alessandria, a Pavia, a Milano, stabilendosi infine a Piacenza (1543) dove seguì i corsi di giurisprudenza e venne accolto nel gruppo di nobili e spregiudicati letterati riuniti nell’Accademia Ortolana, che gli assicurano la loro protezione e ne favoriscono l’esordio nella carriera letteraria. sempre nello stesso anno il Doni prese a convivere con Lena Gabbia, dalla quale, più tardi (1549 circa), ebbe il figlio Silvio e forse anche una figlia. Venuto meno il favore degli ambienti piacentini, si trasferì per un breve periodo a Venezia dalla quale si allontanò di nuovo alla volta di Piacenza e poi di Roma, per fare ritorno nel 1545 a Firenze.

Nella città natale intraprese, sull’esempio dell’amico Aretino, l’attività di editore e di stampatore e venne eletto nel 1546 primo segretario dell’Accademia Fiorentina (l’ex Accademia degli Umidi). L’attività editoriale fiorentina, avviata in un momento di crisi per la monopolistica industria editoriale dei Giunta[2], si protrasse per circa due anni (per i tipi del Doni furono pubblicati i Capricci del bottaio di Gelli), fino a quando, caduto il favore di Cosimo I, che affida nel 1547 a Lorenzo Torrentino[3] il monopolio della stampa, istituendo una stamperia ducale, Doni si vede costretto, anche in seguito alla rottura dell’amicizia con Ludovico Domenichi[4], altro celebre poligrafo suo contemporaneo, a trasferirsi nello stesso anno a Venezia.

In questa città dove l’industria editoriale era particolarmente fiorente e libera, soprattutto in quegli anni, da censure, e dove più propizia si presentava la situazione per uno scrittore di mestiere, si svolge, fra il 1548 e il 1553, l’arco più intenso dell’attività letteraria del Doni. Accolto fra i membri dell’Accademia Pellegrina di cui facevano parte illustri artisti e letterati, ne diventò ben presto l’animatore. La sua attività presso gli stampatori veneziani iniziò nel 1548 curando la prima traduzione italiana dell’Utopia di Thomas More. Nel 1554 abbandonò Venezia e si stabilì, con il figlio Silvio, a Monselice, in una rocca solitaria. Nel 1555 ruppe la lunga amicizia con l’Aretino, che aveva interferito per gelosia personale nel suo progetto di trovare un incarico a Pesaro sotto la protezione di Guidubaldo II[5] duca di Urbino. Misantropia e instabilità mentale caratterizzarono l’ultimo periodo della sua vita trascorso nel ritiro di Monselice, da cui si allontanò solo per alcuni viaggi a Venezia, a Padova e ad Arquà dove progettò d’innalzare un monumento al Petrarca. Morì a Monselice nel 1574.

 

Le opere

Formatosi in quel particolare ambiente culturale fiorentino che diede origine nel 1540 all’Accademia degli Umidi ed ebbe in Anton Francesco Grazzini, Giovanni Mazzuoli[6] detto lo Stradino, e in Niccolò Martelli[7] le figure più rappresentative di un’esperienza letteraria fortemente municipale, che, accogliendo la lezione del Boccaccio e della tradizione poetica burlesca, operava per l’affermazione di una “fiorentinità” spontanea e popolaresca in contrapposizione al paludato classicismo e alla pedanteria e alla retorica dei dotti (scarsa fu la cultura classica di Doni e di Grazzini), Anton Francesco Doni si manterrà in larga misura fedele, sia sul piano espressivo sia nel suo atteggiamento di fronte al fenomeno letterario, a tale esperienza che lo segnerà di un sostanziale provincialismo, anche se la sua vicenda personale e l’ampio campo d’interessi da cui fu animato, dalla filosofia alla morale, dalla scienza alla problematica politica, sociale, religiosa, dall’arte figurativa alla musica, lo collocano entro confini meno angusti e limitati.

Figura fra le più rappresentative di quel gruppo di scrittori del Cinquecento, particolarmente attivi fra il 1530 e il 1560, che sono stati variamente definiti come “poligrafi”, “scapigliati”, “giornalisti”, “avventurieri della penna” (quali Niccolò Franco, Ortensio Lando[8], Ludovico Domenichi, Ludovico Dolce[9], Gerolamo Ruscelli[10], Francesco Sansovino, Tommaso Garzoni), Doni esprime esemplarmente, con la sua vicenda intellettuale e biografica le contraddizioni e il disagio nei quali si dibatte una generazione di scrittori nuovi, decisi ad affermarsi nella carriera letteraria, travagliati da una profonda crisi d’identità e dall’incertezza del proprio ruolo nel quadro di una struttura politica, sociale, culturale e religiosa che sta subendo una decisiva trasformazione sulla via del pieno assetto controriformistico. Di tale nuovo ruolo soltanto l’Aretino, maestro e modello della maggior parte di questi scrittori, fornirà l’esempio di una perfetta e pienamente consapevole realizzazione.

Postosi al servizio dell’editoria veneziana, come molti suoi colleghi che riuscirono in tal modo a inserirsi nella società letteraria, il Doni operò nell’ambito della letteratura cosiddetta “irregolare” o di “opposizione che, per il suo carattere anticlassicistico e antiaccademico, fortemente polemico nei riguardi della cultura ufficiale, meglio corrispondeva alle esigenze del nuovo e vasto pubblico di lettori suscitato dall’espansione editoriale, che richiedeva opere facilmente accessibili in volgare, soprattutto traduzioni, letture divertenti e stimolanti, testi comunque alieni da dottrinarismi e pedanteria.

Se da un lato pertanto l’anticlassicismo dei “poligrafi” cinquecenteschi si configura come meramente strumentale e scade a livello di maniera corrente, dall’altro tuttavia sono presenti nella produzione di questi scrittori, come nel caso del Doni, un autentico e consapevole impegno critico e provocatorio nei confronti della cultura ufficiale e della società contemporanea, e una volontà di trasgressione della norma stilistica e linguistica tradizionale, che si esprimono soprattutto attraverso i modi della stravaganza, del paradosso, della satira e della maldicenza velenosa, del progetto utopico. Scrittori a loro volta “irregolari” come Bruno, Campanella, Boccalini utilizzeranno ampiamente sul finire del secolo e nel corso del Seicento l’esperienza letteraria e linguistica della tradizione “irregolare” del Cinquecento da Aretino a Franco, da Folengo a Doni.

Anton Francesco Doni esordisce nella carriera letteraria a Piacenza nel 1543 dove pubblica una raccolta di Lettere, sul modello aretiniano, nelle quali raccoglie aneddoti, bizzarrie, capricci secondo un procedimento che sarà tipico di quasi tutte le sue opere più importanti caratterizzate dalla totale assenza di organicità, di sistemazione e dall’accumulo capriccioso e bizzarro di «cicalamenti, baie, chiacchiere», com’egli stesso li definisce. Nel 1549 pubblica a Venezia il Disegno e la traduzione delle Epistole di Seneca, cui fanno seguito nel 1550 le Medaglie, una serie di ritratti di personaggi famosi quali Petrarca, Bembo, Ariosto, ecc.; sempre nel 1550 pubblica La libraria e nel 1551 La seconda libraria: la prima è un catalogo critico dei libri italiani stampati, la seconda un catalogo di opere manoscritte; nel suo insieme La libraria costituisce, come scrive il Getto, il primo vero tentativo di compilare una storia letteraria, come la prima idea di tentare un’esperienza di cultura di questo genere.

Fra il 1551 e il 1552 esce la Zucca, una delle sue opere più conosciute, composta da una fitta raccolta di aneddoti, novelle, lettere, proverbi, sentenze. Dello stesso anno sono i Pistolotti amorosi, che raccolgono, secondo l’indicazione dello stesso Doni, «Sonetti, Pistolotti, Madrigali, Lettere, Canzoni, Dicerie, Capitoli, Preghiere, Suppliche, Sestine et altre novità non più intese, né stampate», e La morale filosofia. Fra il 1552 e il 1553 pubblica le sue opere più famose e importanti: I marmi e I mondi celesti, terrestri e infernali. Ne I marmi Doni immagina di essere trasformato in uccello e di volare di città in città fino a Firenze dove si posa sopra i «marmi», cioè i gradini di marmo di Santa Maria del Fiore sui quali si davano tradizionalmente convegno e s’intrattenevano nelle sere d’estate i fiorentini, dei quali riferisce le chiacchiere e i ragionamenti. In quest’opera, scritta in soli quattro mesi, Doni affronta gli argomenti più disparati, dalla medicina alla magia, all’astronomia, dalla morale alla letteratura, ecc. passando scioltamente dalla chiacchiera popolaresca alla discussione dotta, alla critica e alla riflessione più impegnata.

Ne I mondi Doni intende rappresentare la condizione umana e il mondo, afflitti dai vizi, dal disordine, da una perenne trasformazione e instabilità, in contrapposizione a un mondo utopistico ideale e perfetto. Nel 1553 cura un’edizione delle Rime del Burchiello e nel 1556 pubblica il Terremoto, feroce satira contro l’Aretino, cui fanno seguito nel 1562 Il Cancellieri, libro della memoria e dell’eloquenza, nel 1564 le Pitture e nel 1566 le Ville. Negli ultimi anni scrive ancora una commedia Lo stufaiolo e un poema La guerra di Cipro.

Costretto a tener dietro alle commissioni degli stampatori Doni è scrittore disuguale e dispersivo, che alterna a pagine in cui ripete meccanicamente la propria tecnica stilistica, pagine felici in cui emergono il genuino talento di narratore, la vivacità e l’immediatezza descrittiva, l’espressività linguistica e la sicura padronanza degli strumenti stilistici. Animato da uno spirito bizzarro ed estroso e travagliato nello stesso tempo da un’intima inquietudine che lo induce al pessimismo, alla malinconia e allo sfiduciato giudizio sugli uomini e la società del suo tempo, Doni affida le sue aspirazioni, i suoi ideali, la propria visione alternativa del mondo all’utopia collocandosi nel solco della riflessione etico-politica più viva del suo tempo.

*** NOTE ***

[1] Il padre, Bernardo di Antonio, era forbiciaio.

[2] I Giunta o Giunti erano una famiglia di stampatori. Il primo torchio dei Giunti fu impiantato a Venezia da Lucantonio, che cominciò a stampare con il suo nome nel 1489. La tipografia di Venezia stampò ed esportò la maggior parte dei libri liturgici dell’Europa cattolica[4]. A Firenze la famiglia cercò di ottenere il monopolio nella stampa degli spartiti musicali. Prominente tra le produzioni della tipografia furono i bandi e le leggi promulgate dal Granduca di Toscana, per il quale i Giunti praticamente fungevano da stamperia ufficiale. La tipografia di Filippo (1450 – 1517), fratello di Lucantonio, attiva a Firenze dal 1497, divenne una delle principali stamperie della città toscana a cavallo tra XV e XVI secolo. Con Giunta pubblicò, ad esempio, Giorgio Vasari la sua seconda edizione, ampliata e riveduta, de Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568). A partire dal 1497 la famiglia Giunti produsse e commerciò libri non solo in Italia, ma anche in Francia, Spagna e in altre importanti città europee.

[3] Laurens van den Bleeck, italianizzato come Lorenzo Torrentino (Gemert, 1499 – Firenze, 2 febbraio 1563), era nato nei Paesi Basssi da una famiglia agiata. Dopo aver lavorato per alcuni stampatori e librai ad Anversa, Basilea, Lione e Venezia, a partire dal 1532-1533 visse a Bologna, dove esercitò l’attività di stampatore e libraio insieme a un suo connazionale, il grande studioso di lingua greca Arnoldo Arlenio. La loro tipografia importò libri greci e latini da Francia e Germania e vendettero libri in tutta Italia e non solo. Invitato a Firenze dal duca Cosimo I de’ Medici, nel 1547 Torrentino aprì la sua stamperia, producendo un notevole numero di volumi e tra di essi vi furono opere di autori come Alberti, Giovio, Guicciardini e Vasari. Una delle sue più importanti pubblicazioni fu, nel 1553, il Digesto, pubblicazione a stampa della codificazione del diritto romano raccolta dall’Imperatore Giustiniano.

[4] Ludovico Domenichi (Piacenza, 1515 – Pisa, 29 agosto 1564) era figlio di Giampietro, avvocato e notaio di Piacenza, che vantava titolo nobiliare e numerose terre in provincia. Compiuti i primi corsi di grammatica e di retorica a Piacenza, studiò legge a Pavia, ma con poca voglia e profitto, sicché il padre lo mandò a Padova, dove finalmente si laureò. Ma la professione legale non lo attraeva ed egli preferiva frequentare gli ambienti letterari e artistici. A Piacenza divenne membro dell’«Accademia degli Ortolani», come Anton Francesco Doni, e ciò dovette irritare il padre a tal punto che il Domenichi decise di lasciare la città per cercare altrove tranquillità e poter dare libero sfogo alla sua passione per le lettere. Si trasferì perciò a Venezia, capitale dell’editoria italiana, dove l’amico Aretino avrebbe potuto introdurlo nei giusti ambienti ove sviluppare le sue capacità di traduttore dal greco e dal latino, cercando nello stesso tempo di poter vedere riconosciuti i propri meriti di autore.  In quegli anni pubblicò il libro delle Rime e la traduzione di un’opera di sant’Agostino, Del bene della Perseveranza. Curò anche le edizioni (a volte in forma anonima) di opere non in linea con il conformismo cattolico e i dettati controriformistici, Nicomediana di Calvino e i Commentarii del protestante Johannes Sleidanus. Nel marzo del 1546 Domenichi si trasferì a Firenze e nel 1552 fu condannato alla reclusione a vita per aver tradotto e stampato un opuscolo di Calvino contro il Nicodemismo; venne liberato anni dopo dal duca Cosimo I de’ Medici.

[5] Guidobaldo II Della Rovere (Urbino, 2 aprile 1514 – Pesaro, 28 settembre 1574) era figlio primogenito del duca  Francesco Maria I, al quale successe, e di Eleonora Gonzaga. Nel 1534 sposò Giulia da Varano, ottenendo così il ducato di Camerino, che presto, però, dovette cedere (1539) al pontefice Paolo III. Dopo la morte della giovane moglie (1547) si risposò l’anno successivo con Vittoria Farnese, nipote di Paolo III, tenendo una fastosa corte a Pesaro. Urbino gli si ribellò, non potendo sopportare le tasse eccessive da lui imposte, e il primo gennaio 1573 divampò la rivolta, che Guidobaldo soffocò aspramente nel sangue.

[6] Giovanni Mazzuoli, detto anche lo Stradino (Firenze, 1480 – 1549), era nato da Domenico di Giovanni e da Marietta di Michele Dini. La sua giovinezza fu avventurosa: avviato alla mercatura, viaggiò molto ma nel 1505 fu detenuto nel carcere fiorentino delle Stinche. Divenne soldato mercenario di Giovanni dalle Bande Nere, con il quale prese parte alla spedizione contro Urbino (1516), alle campagne in Lombardia e all’assalto di Parma (1521). Nel 1529, quando la Repubblica fiorentina si avviava al tramonto, fu imprigionato e torturato per ordine degli Otto di guardia. Con il ritorno dei Medici a Firenze le sue fortune si risollevarono e già nel 1533 fu provveditore a Pisa. Fu legato a Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico, nonché amico di uomini di cultura e di potere. Non conosceva il latino, né ricevette mai un’istruzione umanistica; di lui rimangono le memorie occasionali, in prosa o in versi, che usava vergare di suo pugno sui volumi che gli appartenevano: note di possesso, notabilia marginali, annotazioni sulla provenienza e il contenuto dei libri, ringraziamenti e lodi ai donatori, massime moraleggianti, racconti di guerra o di viaggio, brani di opere altrui. Spesso il M. completava questi interventi con disegni a penna, come teschi, simboli, immagini allegoriche e stemmi araldici (tra cui il proprio, raffigurante due mazze incrociate). Fece uso di una scrittura personale, ben riconoscibile: una mercantesca di base con elementi all’antica e originali maiuscole antropomorfe.

[7] Niccolò Martelli (Firenze, 1498 – Firenze 1555) nacque da Giovanni di Niccolò, affermato mercante, e da Fioretta di Lorenzo di Buonaccorso Pitti. Per volontà paterna, all’età di circa 14 anni, il Martelli fu mandato a Roma per far pratica di mercatura e ciò gli impedì di ricevere quell’istruzione umanistica che avrebbe desiderato. Avendo fatto la conoscenza di Pietro Aretino (1520-21), il Martelli cominciò per suo tramite a frequentare gli ambienti letterari della corte del papa Leone X e a comporre versi. Dopo il rientro a Firenze, si divise serenamente tra gli affari, che lo costringevano a viaggi in tutta Italia, e la passione per le lettere. Al 1532 risale un capitolo in terza rima da recitarsi come intermezzo di una sua non meglio precisata commedia che venne recitata probabilmente durante il carnevale. Nel 1533, a seguito di una lite con il fratello Carlo, venne confinato per sei mesi a Prato, dove intraprese una breve relazione con Maria Minerbetti, moglie del Commissario ducale nella città. Al soggiorno pratese sono da ricondurre non le rime amorose alla Minerbetti ma anche componimenti comici. Al 1536 risalgono i versi sulle nozze del primo duca di Firenze Alessandro de’ Medici con la figlia dell’imperatore Carlo V. Nel giugno 1543 le difficili condizioni economiche spinsero il Martelli a tentare la fortuna in Francia alla corte di Francesco I, ma il suo soggiorno francese si rivelò un insuccesso. Nominato dal duca Cosimo podestà dell’Impruneta, fece ritorno in patria e ricoprì la carica assegnatagli per sei mesi; poi, si dedicò con grande impegno all’Accademia per rilanciarne la produzione letteraria. Nei suoi ultimi anni di vita limitò gli impegni letterari per privilegiare l’attività mercantile. Oltre ai componimenti di cui s’è detto di lui ci resta un folto epistolario e le rime indirizzate a letterati e personaggi illustri sia fiorentini che italiani.

[8] Ortensio Lando (Milano, 1510 ca – Napoli, 1558 ca) nacque da Domenico Landi, originario di Piacenza, e dalla milanese Caterina Castelletta. Nel 1523 sarebbe entrato nell’ordine degli agostiniani assumendo il nome di Geremia. Nel 1523 passò a Padova, poi a Genova, a Siena, a Napoli e nel 1531 nel convento bolognese di San Giacomo Maggiore, dove studiò teologia, mentre nello Studio di Bologna avrebbe conseguito la laurea in medicina. Come molti letterati dell’epoca condusse una vita errabonda per l’Italia e l’Europa prima di approdare definitivamente a Venezia, dove fu un poligrafo, prestando la sua opera per i famosi editori veneziani. Scrisse molte opere, diverse delle quali anonime, o sotto pseudonimo. È noto per le sue traduzioni di Cicerone e per la traduzione de L’Utopia di Tommaso Moro, che è la prima in lingua italiana.

[9] Lodovico Dolce (Venezia, 1508 o 1510 – Venezia, 1568) nacque in un’antica famiglia veneziana di un certo prestigio, ma la morte del padre rese particolarmente difficile la vita per lui e per i suoi tre fratelli. Frequentò lo Studio di Padova grazie al mecenatismo delle grandi famiglie Loredan e Cornaro, sposò una teatrante (dalla quale ebbe due figli) e subì due processi presso il Sant’Uffizio (1558 e 1565), dai quali uscì assolto. Il Dolce fu in contatto con i maggiori letterati dell’epoca ed ebbe legami con numerose accademie. Si rese protagonista anche di polemiche interne agli ambienti culturali che lo videro opposto rispettivamente al letterato beneventano Niccolò Franco e al viterbese Girolamo Ruscelli. Benché le sue opere avessero un indubbio successo presso i contemporanei e quindi avessero un notevole smercio, sembra che questo non gli abbia mai procurato una vera ricchezza. Autentico poligrafo, la sua opera letteraria fu indefessa. Molti critici, tuttavia, pur elogiando la vastità del suo sapere e la ricchezza delle sue produzioni, gli rimproverano di non avere in definitiva mai raggiunto l’eccellenza in alcuno dei molteplici campi cui si applicò. La sua opera più conosciuta sono le Osservationi nella volgar lingua (1550), uno dei più importanti trattati di grammatica italiana del Cinquecento, di poco successivo alle Prose della volgar lingua del Bembo (1525), e a differenza di queste ultime, decisamente orientato a finalità divulgative e didattiche.

[10] Girolamo Ruscelli (Viterbo, 1518 ca – Venezia, 1566) nacque da Francesco di Pietro di Antonio, che figurava tra le famiglie patrizie della città. Molto colto e versato specialmente negli studi grammaticali, si spostò in tutta l’Italia:  Aquileia, Padova, Roma (dove nel 1541 fondò l’Accademia dello Sdegno), Napoli e infine Venezia (1548), dove rimase fino alla morte. Fu scrittore degli argomenti più vari, sia come autore o curatore, sia per conto terzi. Tra i suoi lavori più noti, si ricorda la cura di svariati classici fra cui il Decamerone, l’Orlando Furioso, e la Geografia di Claudio Tolomeo. Si impegnò anche nella linguistica, e compilò un Rimario rimasto in uso fino al XIX secolo.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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