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Appena sepolto Zosimo, i diaconi della Chiesa romana, insieme ad un piccolo gruppo di presbiteri, si barricarono il 27 dicembre nella basilica lateranense ed elessero come successore l’arcidiacono Eulalio, probabilmente greco come il suo predecessore. Il 28 dicembre la grande maggioranza dei presbiteri, con l’appoggio di buona parte del popolo, si radunò in una basilica non chiaramente identificabile, detta di Teodoro, ed elesse il vecchio collega Bonifacio, un romano di grande virtù ed esperienza. Nella domenica del 29 dicembre vennero entrambi consacrati separatamente. Eulalio ricevette la consacrazione in Laterano dal Vescovo di Ostia, che per consuetudine aveva l’incarico di ordinare il Vescovo di Roma.

Vi furono dei tumulti, poiché nessuna delle due fazioni intendeva cedere. Così, il prefetto della città, il pagano Aurelio Anicio Simmaco, che parteggiava per Eulalio, del quale era amico, spedì immediatamente un rapporto alla corte imperiale a Ravenna, che metteva in cattiva luce Bonifacio; per cui l’Imperatore Onorio, con rescritto del 3 gennaio 419, riconobbe Eulalio come Papa. Appoggiato dal popolo, Bonifacio si rifugiò nella Basilica di San Paolo e un tribuno, incaricato da Simmaco di procederne all’arresto, venne respinto e malmenato. Il prefetto, allora, chiuse le porte della città, per impedire a Bonifacio di rientrare; ma i presbiteri che ne avevano sostenuto l’elezione inviarono all’Imperatore un diverso resoconto, che spiegava ampiamente come il loro Vescovo fosse stato eletto in modo regolare e con la maggioranza necessaria, mentre per l’elezione di Eulalio erano state violate le leggi canoniche. Onorio allora convocò i due contendenti a Ravenna davanti ad un Sinodo di Vescovi all’uopo radunato; ma visto che il Sinodo non giungeva ad una conclusione, l’Imperatore decise di rimettere il caso ad un Sinodo più rappresentativo, che avrebbe incluso vescovi provenienti dalla Gallia e dall’Africa, e che avrebbe dovuto tenersi a Spoleto nel giugno del 419. Nel frattempo, per evitare disordini, entrambi i Vescovi dovevano allontanarsi da Roma ed il Vescovo di Spoleto, Achilleo, avrebbe presieduto le cerimonie pasquali, che dovevano svolgersi nella città il 30 marzo.

Bonifacio obbedì, ritirandosi nel cimitero di Felicita sulla Salaria; ma Eulalio, deciso a rafforzare la sua posizione proprio presiedendo le funzioni pasquali, tornò a Roma ed occupò con la forza la basilica Lateranense per officiarvi la messa. Ciò causò la sua rovina, poiché suscitò disordini civili ed il prefetto lo espulse immediatamente dalla città. Il 3 aprile fu pubblicato un editto imperiale che bandiva definitivamente Eulalio dalla Sede romana, confinandolo in Campania, e confermava la nomina a Vescovo di Bonifacio.

Uno dei primi atti di Bonifacio, fu scrivere una breve epistola ai tre legati che Zosimo aveva inviato in Africa per il caso di Apiario. Tale epistola, però, sortì l’effetto di accelerare le resistenze difensive degli Africani, i quali – nel grande concilio di Cartagine del 25 maggio 419 – non solo riuscirono ad escogitare un compromesso per liquidare l’affare di Apiario[1], ma domandarono alle Chiese di Alessandria, Antiochia e Costantinopoli il testo autentico dei canoni invocati dai legati papali per legittimare l’appello dei Vescovi a Roma, decidendo altresì nell’attesa di pubblicare la raccolta dei canoni ricevuti dalla Chiesa africana[2], che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto servire ad affermare l’autonomia disciplinare dell’Africa. Per non creare ulteriori tensioni e non offendere Bonifacio, inviarono a Roma Alipio di Tagaste[3] e una lettera, scritta dopo il Concilio, nella quale esprimevano la speranza che la sua saggezza e rettitudine avrebbe risparmiato loro l’altezzoso trattamento che avevano subito dal predecessore.

Sotto questo punto di vista, però, Bonifacio non dimostrò un comportamento univoco. Infatti, quando gli capitarono tra le mani due lettere di pelagiani che calunniavano S. Agostino, egli le fece subito trasmettere a quest’ultimo invitandolo a preparare una esauriente risposta. Agostino scrisse allora il trattato in quattro libri Contra duas epistolas Pelagianorum che dedicò al Papa in una lettera che testimonia la delicatezza e l’umiltà del suo carattere. In altra occasione, però, Bonifacio agì imprudentemente e in maniera non dissimile dal suo predecessore. Era accaduto che un certo Antonio, che S. Agostino aveva incautamente nominato Vescovo di Fussala, nel circondario di Ippona, era stato allontanato successivamente dal suo incarico poiché l’autore delle Confessioni si era reso conto di avere fatto una scelta non opportuna. Antonio si era presentato a Roma presentando appello a Bonifacio, che ne accolse il ricorso e rimandò il prelato in Africa con la richiesta che fosse reintegrato. Ciò, naturalmente, suscitò le proteste di S. Agostino e Bonifacio, comprendendo forse l’errore, cedette tosto alle sue rimostranze.

Per porre rimedio alla situazione creatasi nella Chiesa gallica a causa dell’acquiescenza del suo predecessore verso le ambizioni di Patroclo, Vescovo di Arles, Bonifacio approfittò di un ricorso dei fedeli di Lodève: avendo costui ordinato per la città un vescovo di sua scelta ma non accetto al clero ed al popolo, questi si rivolsero al Papa, che scrisse al metropolita Ilario di Narbona dicendo che la cosa era contro le regole dei padri e che perciò egli non poteva tollerare che vi potessero essere ordinazioni episcopali da chi non apparteneva alla provincia e senza tenere conto del metropolita. Ilario, pertanto, “metroplolitani iure munitus et paeceptionibus nostris fretus”, doveva recarsi al più presto a Lodève e – ponendo termine alla presunzione di coloro che vogliono estendere la loro autorità oltre il lecito – procedere all’ordinazione di un nuovo Vescovo, inviandone poi una relazione alla Sede Apostolica. Tale lettera sancisce l’annullamento dei privilegi concessi da Zosimo alla diocesi di Arles, divenuta – come s’è visto – vicariato papale, restituendo a Marsiglia, Vienne e Narbona i loro diritti metropolitani.

Avvertendo poi il pericolo cui andava incontro il vicariato papale di Tessalonica nell’Illirico, per via dei tentativi di Attico, Vescovo di Costantinopoli, di attirare le Chiese di quei territori sotto la sua influenza, Bonifacio si impegnò con forza, determinazione e abilità in quella che può essere considerata l’opera più importante del suo pontificato: mantenere le Chiese di quella regione sotto la sua giurisdizione. L’occasione per farlo gli fu offerta dal caso del Vescovo Perigene, che era stato ordinato Vescovo di Patrasso (ma non era stato accolto dal popolo) e che poi era stato richiesto dai suoi concittadini per la sede di Corinto. La maggior parte del Vescovi dell’Acaia, in un Sinodo, si erano dichiarati favorevoli a tale soluzione ed avevano richiesto al Papa la sua approvazione. Bonifacio decise di approvare il trasferimento, dopo aver avuto il parere del suo vicario, il Vescovo Rufo di Tessalonica, che tuttavia non gli nascose l’opposizione di alcuni vescovi ad una simile decisione. La questione pareva risolta, ma due anni più tardi si verificò un vero e proprio tentativo di rivolta, non solo contro il Vescovo di Tessalonica, ma anche contro il Papa. In un Concilio celebrato a dispetto del divieto di Rufo, alcuni vescovi della Tessaglia disapprovarono il trasferimento di Perigene a Corinto e si rivolsero ad Attico di Costantinopoli, che accolse con benevolenza le loro proteste, sperando in tal modo di sottrarre l’Illirico alla giurisdizione del Papa.

L’Imperatore Teodosio II[4], per venire incontro alle mire di Attico, pubblicò il 14 luglio 421 una costituzione diretta al prefetto del pretorio per l’Illirico, che trasferiva la giurisdizione ecclesiastica sull’Illirico orientale, ormai prefettura dell’Impero d’Oriente, al Vescovo di Costantinopoli. Bonifacio reagì prontamente mettendo in opera una duplice iniziativa: in campo politico, poiché era intervenuta la suprema autorità dello Stato in Oriente, fece intervenire la suprema autorità dello Stato in Occidente, ossia l’Imperatore Onorio, il quale si interpose con successo presso il nipote, ottenendo che ritirasse l’editto; in campo ecclesiastico, poi, si assunse direttamente la salvaguardia dei propri diritti, scrivendo a Rufo e agli altri vescovi della regione tre energiche lettere, le cui argomentazioni costituiscono un documento di prim’ordine per la dottrina e la coscienza del primato della sede di Roma:

  1. i Papi vengono identificati con l’apostolo Pietro, del quale hanno ereditato la sollecitudine per la Chiesa Universale e l’autorità;
  2. la Chiesa di Roma svolge per le Chiese sparse nel mondo la stessa funzione che il capo svolge per le membra del corpo, ragion per cui non ci si può separare da essa senza farsi estranei alla stessa religione cristiana;
  3. i privilegi della Sede apostolica romana sono stati riconosciuti dai canoni che hanno fissato, sin dall’antichità, l’ordine delle Chiese, con Roma al primo posto, Alessandria al secondo e Antiochia al terzo;
  4. a nessuno è lecito contestare e correggere i giudizi del supremo seggio apostolico (infatti nessuno lo ha mai fatto), e le stesse grandi sedi orientali hanno reso omaggio, con i loro ripetuti appelli e le loro reiterate consultazioni, alla superiore autorità della Sede romana.

L’intervento nell’Illirico fu uno degli ultimi atti di Bonifacio, che venne a morte il 4 settembre 422. Nei suoi tre anni e mezzo di pontificato egli, grazie alle sue capacità, alla sua determinazione e alla sua esperienza riuscì a ristabilire ovunque il prestigio e la preminenza del Soglio di Pietro, nonché a riallacciare cordiali relazioni con tutte le Chiese. E se pure le tensioni tra Roma e le Chiese dell’Africa non sfociarono in uno scisma più per merito delle seconde che non della prima, non può non essere riconosciuta a questo Pontefice un’autentica volontà pacificatrice.

***NOTE***

[1] Gli lasciarono la dignità sacerdotale, allontanandolo però da Sicca.

[2] Codex canonum Ecclesiae africanae.

[3] Alipio nacque a Tagaste da genitori che erano tra i maggiorenti del paese: “parentibus primatibus municipalibus” (Confess., Vl, 7, 11). Piccolo di statura (De beata vita, 15), ma di animo forte (Confess. IX, 6, 14) e di indole virtuosa (Confess. Vl. 7, 1l), strinse un’affettuosa ed intima amicizia con s. Agostino tanto che questi lo chiama ripetutamente “frater cordis mei” (Confess., IX, 4, 7). Più giovane di qualche anno del suo amico che era nato, come si sa, nel 354, ne frequentò le scuole di grammatica nel paese natale e le scuole di retorica a Cartagine; lo precedette a Roma, dove si recò per studiare diritto, e lo accompagnò a Milano. A Roma fu assessore del comes delle elargizioni per l’Italia e diede, in questa circostanza, rari esempi di illibatezza e di disinteresse. Resistette energicamente alle pretese d’un senatore potentissimo che tentava di indurlo a commettere illegalità, restando indifferente, tra le meraviglia universale, sia alle minacce che alle lusinghe: “anima rara”, scrive s. Agostino, “che non faceva caso dell’amicizia e non paventava l’inimicizia di un uomo così potente, famosissimo per gli innumerevoli mezzi che aveva di far del bene o di far del male” (Confess., VI, 10, 16). L’amicizia con Agostino valse a ritrarlo, momentaneamente, dalla passione per i giuochi del circo, ma lo trascinò nel manicheismo (Confess., VI, 11-16). Con l’amico Alipio visse il travaglio del ritorno alla fede (ibid., VII, 25); castissimo di costumi, egli fu di sostegno nella lotta contro le passioni, e lo sconsigliò dal prendere moglie per non rinunziare a vivere liberamente nell’amore della sapienza (ibid., VI, 21); fu presente alla crisi della conversione (ibid., VII, 13-19), e ne seguì l’esempio (ibid., VIII, 30); si ritirò con lui a Cassiciaco, dove prese parte alle dispute di filosofia (ibid., IX), e insieme con lui ricevette il battesimo il 25 aprile 387 (ibid., IX, 14). L’anno seguente Alipio tornò in Africa e a Tagaste si ritirò con gli amici a vita cenobitica (ibid., IX, 17 Possidio, Vita A., III). Nel 391 seguì Agostino nel monastero d’Ippona (Ep., XXII, 1). Poco dopo viaggiò in Oriente e strinse amicizia con s. Girolamo (Ep., XXVIII, 1). Fu caro a s. Paolino da Nola, che ne ammirava la santità e lo zelo (Ep., XXIV, tra le agostin. XXVII, 5). Eletto vescovo di Tagaste, quando S. Agostino era ancora prete (394 ca.; cf. Ep., XXV, 1), a fianco di lui, per quasi quarant’anni, rifulse nella Chiesa d’Africa come riformatore del clero, maestro di monachismo (S. Melania Iuniore passò sette anni a Tagaste sotto la sua direzione; cf. Ep., LXXXIII, 125, 188) e difensore della fede contro i donatisti e i pelagiani. Nel 411 partecipò alla Conferenza di Cartagine, e fu tra i sette vescovi cattolici che sostennero le dispute con i donatisti (Gesta coll. carth., Mansi, Conc., IV 1760, pp. 7 sgg.). Nel 418, per incarico di papa Zosimo (Ep., CXC, 1; Possidio, Vita A., XIV), si recò a Cesarea di Mauritania per affari ecclesiastici, e prese parte alla disputa di Agostino con Emerito, vescovo donatista (De gestis cum Emerito donatista). Contro i pelagiani si adoperò con tanto zelo che fu dagli eretici unito ad Agostino nell’odio (Op. imp. contra Iul., 1, 42, 47; 3, 35) e da Girolamo nel merito: auctoribus vobis haeresis caelestiana iugulata est (Ep., CCII,1, tra le agostin.). Nel 416 partecipò al concilio di Milevi (Numidia), e ne scrisse al papa Innocenzo (Ep., CLXXVI-VII). Per la causa pelagiana venne più volte in Italia, latore di opere agostiniane al pontefice Bonifacio e al comes Valerio (Contra duas ep. Pelag., I, 1-3; De nupt. et concup., II, 1). Nel 428, da Roma, inviò all’amico una replica di Giuliano, e insisté perché rispondesse (Ep., CCXXIV, 2). Sono le ultime notizie che abbiamo di lui. Si presume che fosse ad Ippona per la morte di S. Agostino, e che sia morto nello stesso anno 430. Della sua opera letteraria non ci resta che la parte da lui presa nei dialoghi agostiniani Contra Academicos e De Ordine (cf. Contra Acad., I, 4).

[4] Teodosio II (Costantinopoli, 401 – 450) , detto il giovane, figlio di Arcadio e Elia Eudossia, fu imperatore romano d’Oriente dal 408 d.C. al 450 d.C. Ancora bambino succedette al padre, ma il potere veniva esercitato dal prefetto del pretorio Antemio. Anche in seguito si dedicò più agli studi che al governo, delegandolo alla sorella, alla moglie all’eunuco Crisafio e dedicandosi soprattutto alla pubblicazione del Codex Theodosianus (428).


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