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Marco Michelini | 3 Maggio 2018

All’apparenza, ma molto spesso l’apparenza inganna, il mio amico Paul Dimitrov poteva anche sembrare un serio professionista, magari per quella valigetta ventiquattrore che si portava sempre appresso, o per quei suoi baffetti vissuti che asseriva di possedere fin dalla nascita. Sebbene siano passati già quattro anni dalla sua scomparsa, mi sembra ancora di vedermelo davanti: era l’unica persona che conoscessi che riusciva a portare giacca e cravatta a farfalla anche in piena estate, con quaranta gradi all’ombra.

Come dicevo, almeno all’apparenza, poteva sembrare un incolore esponente della media borghesia, ma in realtà era pura dinamite, una vera e propria bomba inesplosa: una volta, ad un ricevimento ultramondano, aveva finto di scambiare Donna Lavinia Borromeo Elkann per una entraineuse. Si era poi scusato per l’errore, ma aveva voluto ad ogni costo pizzicarle il culo.

Paul Dimitrov discendeva per linea diretta da una nobilissima famiglia russa, anche se molto decaduta. Suo padre, il Conte Tjgran, si era salvato a stento dalla rivoluzione bolscevica fuggendo da San Pietroburgo travestito da cespuglio. Dopo alcuni mesi di fuga, durante i quali si muoveva solo di notte e sempre in diagonale, a tre rapidi passi alla volta, riuscì a raggiungere Zurigo e, successivamente, Milano dove incontrò una nobilotta della bassa bolognese, ricca da fare schifo. Fu amore prima vista e i due si sposarono subito. Dopo sette mesi nacque prematuramente Paul e sua madre, che era amante dell’ordine e soprattutto della puntualità, si rifiutò di rivolgergli la parola per cinque anni.

Il Conte Tjgran, dopo la nascita del quarto figlio, cominciò a nutrire una sorda avversione per la moglie, donna molto perbene, tutta casa e chiesa, ma che aveva il maledetto vizio di mangiare tortellini in continuazione, anche quando faceva sesso con il consorte. Per tale motivo il pover’uomo cominciò a bere due bottiglie di cognac al giorno; poi, una volta, stette molto male e ne bevve quattro. Morì all’età di ottantadue anni amato e compianto da tutti, soprattutto dal suo barista.

Io conobbi Paul Dimitrov quando lui aveva circa cinquant’anni ed insegnava Psicologia Cognitiva del Somaro alla Sapienza di Roma. Fraternizzammo subito, nonostante la differenza d’età, e diventammo in breve grandi amici, tanto che lui – un giorno – mi confessò candidamente che il suo più grande desiderio, peraltro irrealizzato, era quello di poter cantare. Aveva iniziato a cantare appena nato; il dottore lo afferrò per i piedi schiaffeggiandolo selvaggiamente, ma lui non volle smetterla prima di aver cantato tutto il coro del Nabucco. Allora il dottore lo chiuse dentro all’incubatrice e tolse la corrente. Paul si salvò solo perché aveva in bocca la sua inseparabile pipa: là dentro faceva veramente un freddo da crepare! A sedici anni, Paul Dimitrov aveva scritto una commedia musicale intitolata “Strisce e stelle, stelle e strisce, ma nessuno ci capisce” che venne rappresentata in un piccolo teatrino d’avanguardia a Petralia Sottana, senza tuttavia riscuotere i favori del pubblico. La delusione di Paul Dimitrov per tale insuccesso fu molto forte, tanto che entrò in seminario e si fece prete, ma venne ben presto sconsacrato per aver lasciato annegare un neonato nel fonte battesimale.

Tendenzialmente, il mio amico Paul Dimitrov era un romantico frustrato e spesse volte cenava solo in un ristorante con orchestra. Era anche stato sposato con una cabarettista, che aveva conosciuto durante la seconda guerra mondiale in una balera dove, a quanto pare, lei cantava “Lili Marlene” vestita da lampione. Alla fine dello spettacolo, lui l’attese all’uscita della balera con in mano dei fiori di tarassaco ed andarono insieme in un ristorantino poco lontano. Cenarono al lume di candela, anche perché, per via dei bombardamenti, era stata tolta la corrente elettrica in tutta la città. Si sposarono un anno dopo, ma la moglie ben presto cominciò a tradirlo segretamente con il portiere; finché un giorno lo piantò (poiché riteneva che fosse molto umiliante essere la moglie di un cornuto) per andare a vivere in Burundi con un eschimese che commerciava in pelli di foca.

Paul Dimitrov soffrì moltissimo per l’abbandono della moglie, giacché non sapeva proprio a chi rivolgersi per farsi lavare la biancheria sporca. Pensò di suicidarsi facendosi passare dalla madre nel tritacarne; ma l’augusta genitrice, che possedeva solo un tritacarne a mano, si rifiutò categoricamente di fare una fatica del genere e lui allora, per farla finita, cercò di tagliarsi le vene con il rasoio elettrico. In quel brutto periodo, la sua mente, ormai vacillante, gli fece sviluppare anche una fortissima misantropia, finché una notte non tentò di violentare una vecchietta dietro ad un cespuglio. La cosa gli fece comprendere di avere bisogno di aiuto, per cui si recò da un famoso psichiatra tedesco, il quale lo guarì sì dalla misantropia, convincendolo però a diventare omosessuale. Paul Dimitrov divenne così l’amante di Sebastian, un ex marinaio turco gelosissimo, che faceva lo spogliarellista in un night e che al termine del proprio numero restava in perizoma leopardato cantando la Traviata. Questa relazione era vivamente osteggiata e deprecata da sua madre, la quale, per tutto il resto della propria vita, non fece altro che dire al figlio del demente, tranne una volta: aveva la laringite e demente lo scrisse su un pezzo di carta.

Sebastian e Paul Dimitrov andarono a vivere da soli in un appartamento di trentadue camere e quadrupli servizi. Per non perdere completamente i contatti, giravano per la casa tenendo sempre in mano il cellulare. Ogni tanto avvenivano dei commoventissimi incontri durante i quali i due amanti, sebbene in un primo tempo stentassero a riconoscersi, si scambiavano baci, abbracci, tenere carezze ed effusioni d’entusiasmo; ma poi, nel giro di due o tre minuti, essi tornavano a perdersi nuovamente nei meandri dell’appartamento.

Quasi tutte le mattine, Paul Dimitrov ed io ci incontravamo alla fermata dell’autobus. Mi sembra ancora di vederlo con il suo doppiopetto impeccabile, la cravatta a farfalla, la ventiquattrore nella mano sinistra e la coppola in testa, sempre un pochino di traverso. Era molto distratto e spesso dimenticava di togliere la stampella dalla giacca, prima di infilarsela. Una volta, garbatamente, glielo feci notare, ma lui, con la massima indifferenza, mi disse: «Ottimo! Così coloro che trovano deboli i miei insegnamenti possono credere almeno che ho le spalle larghe». Ricordo, inoltre, che un giorno – e ciò mostra chiaramente fino a che punto arrivasse la sua distrazione – entrò completamente vestito sotto la doccia ed iniziò ad insaponarsi con la massima cura la suola delle scarpe. Dirò di più: alla prima stagionale di Tosca al San Carlo di Napoli, Paul Dimitrov era in un palco laterale con mia moglie e me. Prima dell’inizio dello spettacolo, distratto come al solito, si sporse troppo dal parapetto per salutare un giovane carabiniere e cadde a rotta di collo nella buca dell’orchestra, sotto lo sguardo esterrefatto di tutti i presenti. Essendo troppo orgoglioso per ammettere una disgrazia, tornò a teatro ogni sera, per un mese di seguito, ed ogni volta ripeteva quella pazzesca caduta. Gli venne una lieve commozione cerebrale. Io gli feci notare che ormai poteva smetterla, giacché tutti, ma proprio tutti, s’erano convinti della volontarietà del fatto. Ma lui mi rispose: «No, no. La ripeto ancora un paio di volte. Dopo tutto, mi diverto un mondo». L’ultima sera c’era anche la televisione a riprenderlo e lui, per l’occasione, eseguì un triplo salto mortale.

In occasione del sessantesimo compleanno di Dimitrov, la marchesa Marsicano Dall’Orso diede un grandioso ricevimento in suo onore, durante il quale vennero serviti agli ospiti, in antichissimi e preziosissimi bicchieri di cristallo di Boemia con filettatura in oro, fiumi e fiumi di champagne. Paul, vinto dalla commozione, volle fare un brindi alla sua terra d’origine, la Santa Russia: tracannò d’un sol colpo il Dom Perignon del ’64, quindi – prontamente imitato da tutti gli invitati – scagliò, secondo l’usanza russa, il bicchiere nel camino. La povera marchesa non resse alla vista di un tale scempio: venne colta istantaneamente da aneurisma polmonare e la si dovette portare d’urgenza al pronto soccorso dove morì un’ora dopo. Paul Dimitrov sì sentì molto in colpa per quanto era successo alla marchesa; la sera, a casa mia, se ne stava in silenzio, disteso mestamente sul divano. Per consolarlo un po’, gli proposi di andare al bar a fare una partita a biliardo con Sebastian. Lui si tirò un poco su, mi guardò diritto negli occhi e mi chiese: «Tu giocheresti con uno che ruba i punti e ti sposta le palle sul tavolo quando ti volti?». «Certo che no» risposi. «Appunto» disse lui, con una voce velata di tristezza. «Nemmeno Sebastian».

Facile è oggi ricordare l’uomo pubblico Paul Dimitrov, il sagace polemista, il brillante professore universitario, l’impegnato filosofo, il funambolico conferenziere; ma è del Paul Dimitrov privato che io sebo il più affettuoso ricordo, del Paul Dimitrov che ascoltava sempre musica classica: persino quando era al cesso, dove tutto compreso solfeggiava l’eroica. O del Dimitrov che passava ore ed ore davanti al televisore guardando vecchi film e sognando di fuggire in Turkestan con Alain Delon, o di baciare sulla bocca Guy Williams mentre interpretava Zorro. O del Paul Dimitrov che cucinava cene monumentali per gli amici del circolo degli scacchi. Era infatti un gastronomo raffinatissimo, sebbene sulla cucina e sugli alimenti in genere formulasse a volte strane teorie: credeva, ad esempio, che il pompelmo fosse un arancio che, per motivi tutti suoi, si era fatto cattivo sangue. Era anche fermamente convinto che vino e liquori avessero funzioni terapeutiche, per cui egli consigliava di curare l’obesità con una bottiglia di rosé della Provenza, le allergie con il Médoc e l’arteriosclerosi con quattro grappini al dì prima dei pasti. Ma il suo pensiero più profondo in merito me lo sparò un giorno a bruciapelo, mentre stavamo mangiando una macedonia. «I mandarini di oggi» sentenziò, guardandomi fisso negli occhi, «non sono più come quelli di una volta. Un tempo, se tentavi di pelarli, potevano anche farti tagliare la testa». Io rimasi un poco sorpreso per queste sue parole, ma due giorni più tardi seppi che era stato ricoverato in manicomio poiché s’era appostato in un angolo poco frequentato della Sapienza ed aveva preso a furiosi colpi di battipanni il rettore dell’ateneo, costringendolo a trovare rifugio nello sgabuzzino delle scope.

Dopo la more di Paul Dimitrov, i soliti detrattori cominciarono a diffondere la voce che fosse un reazionario, ma chi lo conobbe bene sa perfettamente che egli era solo un conservatore vecchio stampo e che le sue simpatie per Hitler erano più dovute al fatto che il colore bruno delle camicie si intonava perfettamente a quello dei suoi occhi, che non a vere e proprie convinzioni politiche, tanto è vero che, nonostante le numerose lezioni di ginnastica e danza classica, non riuscì mai ad eseguire alla perfezione il passo dell’oca. Del resto, aveva sempre sostenuto la tesi che il nazismo, per lui, era semplicemente una reazione alla filosofia accademica e a coloro che lo accusavano di essere razzista, lui candidamente rispondeva che odiava troppo i razzisti ed i negri per poter essere considerato tale. Forse, la sola cosa che lo accomunava realmente al dittatore tedesco era la convinzione che, oltre una certa età, i vecchi scocciano e che per questo bisognerebbe mettere preventivamente tutti nelle camere a gas. «Gasserei per prima mia madre, che ha novantotto anni, e poi tutti quelli che hanno superato i settanta» urlava spesso sbattendo con impeto il pugno sul tavolo; ma se in quei momenti qualcuno gli avesse domandato la sua età, Dimitrov avrebbe evitato l’argomento con notevole impegno. È quindi troppo semplicistico criticare oggi la sua infatuazione per Hitler senza tenere conto dei suoi scritti filosofici. Aveva sicuramente rifiutato tutte le filosofie vecchie e nuove teorizzando che la sola libertà dell’uomo consiste nel sapersi rendere conto delle assurdità della vita che, secondo lui, si poteva riassumere nel rapporto tra l’angoscia e il tempo: l’uomo, cioè, è una creatura condannata ad esistere nel tempo, senonché non è nel tempo che si svolge l’azione. Distingueva anche tra esistenza ed Esistenza, solo che non ricordava mai quale delle due fosse meglio dell’altra. «Dio tace» amava ripetere. «Se ci riuscisse di tappare il becco anche alle donne sarebbe fatta». Dopo lunghe riflessioni il suo rigore intellettuale lo portò a dubitare dell’esistenza della razza umana e della sua stessa esistenza. Perciò, per togliersi quei dubbi, spesso percorreva la città in lungo e in largo, nella speranza di incontrarsi.

Interessante: era un ipocondriaco e un igienista maniaco. Una volta mi telefonò nel cuore della notte, pregandomi di andare urgentemente a casa sua. Quando giunsi là lo trovai disteso sul letto, completamente nudo e con un rosario tra le mani. «Sto morendo» mi disse con aria affranta. «Ho un incavo nel torace». Senza dire una parola mi tolsi la camicia e snudai il petto. «Allora, cos’è? Sto morendo anch’io?! Paul quell’incavo nel torace ce l’hai tu, ce l’ho io, ce l’hanno tutti. Quindi smettila di agitarti e non rompere i coglioni». Non ne ho mai avuto le prove, ma credo che, quando me ne fui andato, lui abbia telefonato ad un altro medico per avere un’ulteriore conferma di quanto gli avevo detto. Un’altra volta ancdò a trovare un amico ricoverato in ospedale e, nell’uscire, accarezzò un bambino con gli orecchioni. Subito dopo si rammentò che lui gli orecchioni non li aveva avuti per cui, appena giunto a casa, per disinfettarsi la mano la bollì.

Il suo peggiore difetto, comunque, era quello di essere assolutamente privo di buon gusto, tanto che, in occasione del carnevale, si presentò ad un ballo mascherato vestito da stronzo: venne catturato subito da due solerti camerieri che lo infilarono a forza nel water e poi tirarono l’acqua. Un’altra volta, invece, volle a tutti i costi mandare in regalo un calendario perenne ad un suo amico ergastolano.

Non era facile capire Paul Dimitrov: la sua innata riservatezza e la sua abituale reticenza nel parlare venivano scambiate per freddezza, ma egli era capace di grande compassione, e una volta, dopo aver assistito per televisione ad un servizio su di un grande disastro minerario, non riuscì a finire la sua sesta porzione di trippa. Ricordo inoltre che una volta, dopo avere letto in un libro dell’assassinio di Caio Giulio Cesare, pianse molto e volle mandare ad ogni costo alla vedova un telegramma di cordoglio: non ci fu verso di dissuaderlo.

Tipico: una volta, nonostante la sua pigrizia innata, riuscii a vincere le sue numerossime resistenze e lo convinsi ad iscriversi con me ad una corsa campestre. Per raggiungere il luogo della corsa, che era dall’altro lato della città, pensò di prendere l’autobus. C’era un fitto infernale. In piedi davanti a lui, c’era un bellissima ragazza. Dimitrov, incoraggiato dal fatto che essa indossava una semplice minigonna, allungò una mano e cominciò a tastarle il culo. La ragazza si voltò di scatto ed inviperita gli chiese se non poteva mettere le mani da qualche altra parte. Candidamente, lui rispose che in effetti ci aveva pensato, ma che non aveva avuto il coraggio di farlo. Durante la corsa, oltre la metà del percorso, venne colto da un crampo al muscolo adduttore della coscia sinistra. Cercai di convincerlo a ritirarsi, ma Paul, dimostrando grande coraggio e forza d’animo, si rifiutò e continuò a correre, stringendo la lingua fra i denti: riuscì a terminare la gara senza un lamento, ma rischiò di amputarsi la lingua. Quando ritornò a casa Dimitrov era distrutto fisicamente e sudato come una bestia, così, per rinfrescarsi un po’, fece una nuotata nel lavello.

Era sempre stato un uomo molto attivo, ed anche al momento della sua morte stava lavorando a diverse cose. Era impegnato, fra l’altro, a creare una nuova etica, mirante a dimostrare che il comportarsi in maniera giusta e retta non è affatto più morale, ma semplicemente più cretino. Il tutto veniva inquadrato all’interno di una nuova teoria filosofica basata sull’amore libero verso i due sessi e svincolato da qualsiasi complesso o inibizione. In pratica egli sosteneva che qualsiasi tipo di comportamento sessuale non può provocare alcuna conseguenza morale, in quanto la sessualità sussiste solo al di fuori del regno dell’Essere reale. Ma nessuno dei due studenti della Sapienza ai quali cercò di spiegare la cosa si bevve la sua teoria, anzi quello più giovane fece una piazzata bestiale. Oltre a tutto ciò, stava lavorando ad un nuovissimo trattato sociologico, basato sull’osservazione diretta di un allevamento di formiche, mirante a dimostrare che può esistere una società organizzata anche in assenza di linguaggio, e che anzi il linguaggio è alla base stessa delle sperequazioni sociali, giungendo poi alla conclusione che si sarebbe potuto migliorare molto il vivere civile usando come mezzo di comunicazione i segnali di fumo, anche per i colloqui più intimi. Contemporaneamente, aveva quasi terminato il suo trattato di semantica, che propugnava che la struttura della frase è innata mentre il nitrito è acquisito. Anche la glottologia lo impegnava parecchio e rammento che una volta passò il pomeriggio intero in cucina tentando di insegnare alla margarina a dire burro. Aveva iniziato anche un saggio sulla strage degli ebrei che si sarebbe dovuto intitolare “Via col gas”, poiché Dimitrov era sempre stato ossessionato dal problema del male, e spesso argomentava, con grande eloquenza, che il male non è tale se a commetterlo non è uno che si chiami Erode. Ma, soprattutto, era impegnato a scrivere un nuovo trattato di pittura destinato – secondo lui – a rivoluzionare tutti i metodi di giudizio usati dalla contemporanea critica d’arte. In realtà Dimitrov di pittura non ne capiva assolutamente nulla: ricordo che ad una mostra d’arte figurativa moderna aveva contemplato per più di due ore un interruttore della luce, credendolo uno dei più audaci dipinti di uno dei maestri della nuova scuola ermetica.

Paul Dimitrov aveva sempre desiderato una morte tranquilla e silenziosa. «Fra i miei libri e le mie carte» amava spesso dire, «come mio fratello Arsenio o mio cugino Ottavio» (suo fratello Arsenio, mentre ammirava uno dei suoi rari francobolli, s’era chiuso per sbaglio in uno scomparto della sua cassaforte ed era morto di fame e di sete; suo cugino Ottavio, invece, era morto soffocato in uno dei cassetti della sua scrivania mentre cercava un vocabolario). Chi l’avrebbe mai detto che, mentre esaminava al catasto comunale una rarissima piantina topografica del seicento, Dimitrov sarebbe stato travolto dallo smottamento di un archivio? Venne portato d’urgenza all’ospedale, e là spirò con il sorriso sulle labbra. Le sue ultime enigmatiche parole furono: «Un montone? No, grazie, basto io». Lo choc per tutti noi fu potente, anche perché Paul ne aveva sempre fatto un’ossessione del proprio funerale. Ricordo che una volta mi disse: «Preferisco essere cremato che starmene sotto terra a chiacchierare con i lombrichi, e tutt’e due ad un weekend con mia madre». Così Sebastian, per rispettare il suo desiderio, fece mettere nella bara un paio di quintali di zuppa inglese.

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