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Marco Michelini | 21 Novembre 2019

Nel Quattrocento la «questione della lingua», posta per la prima volta da Dante nel De vulgari eloquentia, dove la ricerca è orientata verso la definizione di uno stile letterario, torna ad essere dibattuta, dividendo i letterati in schiere opposte: sostenitori del latino, da una parte, fautori del volgare dall’altra, con netta prevalenza dei primi sui secondi. Ma già nella seconda metà del secolo i termini della questione tendono a spostarsi in favore del volgare: vengono compiuti autorevoli tentativi di conciliazione delle due espressioni linguistiche e letterarie da parte dell’Alberti e del Poliziano, mentre 1’invenzione della stampa contribuisce alla diffusione di opere in volgare, e la letteratura volgare si sviluppa all’insegna di una larga libertà linguistica, che non esita ad utilizzare parole e forme del linguaggio parlato, attingendo nello stesso tempo con abbondanza parole e forme dal latino.

Con 1’evolversi della situazione politica, contrassegnata dall’intervento in Italia di potenze straniere, la cultura italiana, che non può competere sul terreno della forza, deve «cercare piuttosto il suo scampo e la vittoria in uno sforzo unitario di persuasione e disciplina e misura, nel discorso retorico e poetico. Perché questo discorso nelle circostanze valesse, non a evadere dalla realtà nella internazionale palestra della tradizione latina, ma a modificare la realtà dei rapporti fra società e cultura in Italia, bisognava che fosse italiano, che si sviluppasse nel solco di una tradizione soltanto italiana»[1]. Una lingua italiana indipendente poteva porsi quale argine sia al frazionamento dialettale e politico, sia alla preponderanza straniera.

Quando il Bembo pubblica nel 1525, dopo lunga preparazione, iniziata probabilmente fin dal 1511, le Prose della volgar lingua, la tradizione latina è sempre viva e operante ed egli si trova ad affrontare la «questione della lingua» sotto un duplice aspetto: quello del rapporto tra latino e volgare nell’uso letterario, e quello della definizione e dell’identificazione del volgare stesso. La sua trattazione si pone come manifesto programmatico del volgare, momento centrale e decisivo di un esteso dibattito, che ha le sue indicazioni teoriche e cronologiche fondamentali in Dante e Manzoni, punto di riferimento costante su cui dovrà commisurarsi ogni successivo intervento. La trattazione si incentra sulla dimostrazione di come tale lingua abbia anch’essa una tradizione, una nobiltà e una perfezione che le conferiscono dignità e indipendenza, oltre alla possibilità di sviluppi ulteriori, e sulla scelta di un volgare fra i tanti che la varietà degli idiomi italiani poteva offrire.

La soluzione che il Bembo adotta per risolvere i due problemi è squisitamente letteraria. A lui, veneziano, che con amore e studio profondo aveva assimilata e fatta sua la lingua in cui avevano scritto Dante, Petrarca, Boccaccio, appariva intol­lerabile lo scadimento cui il volgare era stato condotto dai moderni autori toscani. Accantonando perciò ogni tentazione contenutistica egli procede a una rigorosa analisi formale dei capolavori della letteratura volgare, indagandone pregi e difetti coi medesimi procedimenti critici già applicati alle letterature classiche. Dante, Petrarca e Boccaccio vengono così analizzati e presentati sotto il profilo linguistico e dello stile quali esponenti di una tradizione degna della massima considerazione e tale da poter stare alla pari con l’antichità classica. La lingua che il Bembo propone di adottare non si identifica con alcuno dei linguaggi parlati nelle varie regioni italiane, ma viene trasposta in un tempo cristallizzato, circoscritta alle opere dei tre grandi trecentisti, sottratta a ogni contaminazione con quanto di corrotto e plebeo è presente negli scrittori moderni, e ciò in vista della sua futura durata.

Il canone squisitamente umanistico dell’imitazione che il Bembo propone, muove dalla considerazione che ciascuna lingua raggiunge un momento aureo cui succede inevitabilmente un periodo di decadenza: nella lingua greca nessuno ha saputo eguagliare Omero e Demostene; nella latina Cicerone e Virgilio rimangono modelli insuperabili; nella volgare Petrarca e Boccaccio eccellono su tutti, seguiti da un calo dì qualità, e dalla contaminazione della lingua con termini latini e dialettali. La tesi del Bembo, nella quale volgare e latino vengono rappresentati come tradizioni letterarie raffrontabili su un piano di assoluta parità, solo in apparenza può sembrare antistorica: in realtà egli propone una lingua letterariamente viva, della quale tiene a sottolineare tutta la novità nei confronti del latino. Affrontando e risolvendo questioni fondamentali, la soluzione da lui data al problema diverrà indiscussa.

Nella seconda metà del secolo le idee del Bembo prevalgono a Firenze. Leonardo Salviati[2] negli Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decameron, pubblicati in due volumi nel 1584-1586, fa sue le formulazioni del Bembo, e vede realizzato il suo ideale linguistico negli scrittori del Trecento, il «buon secolo», nel quale è stata raggiunta un’insuperabile purezza ed eleganza formale. Ad esse i moderni scrittori devono adeguarsi sottraendosi all’influsso del parlare comune e accettando le forme stilizzate estranee alla concretezza del reale. Come si vede, la tesi del fiorentinismo arcaicizzante riesce ad affermarsi fino a ottenere, nel 1612, la consacrazione definitiva dell’Accademia della Crusca, che assume il Bembo quale autorità assoluta del proprio vocabolario.

Della complessità del dibattito, e delle altre tesi presenti nella cultura del tempo, si ha notizia anche dalle opere di altri letterati impegnati nella disputa. Intervento personalissimo e non interamente allineato alle posizioni prevalenti, è quello di Sperone Speroni[3], che nella lunga esistenza si trovò al centro di tutti i dibattiti del tempo, e fu autore del Dialogo delle lingue. Al dialogo, che si finge avvenuto nel 1530, intervengono Lazzaro Bonamico[4], convinto assertore del latino, Pietro Bembo, che, ribadendo i principi esposti nelle Prose, sostiene la dignità del volgare, e un Cortesano che difende l’uso di un volgare colto, non limitato alla pura toscanità, da apprendersi «nelle corti de’ gentiluomini, non istudiando ma giuocando e ridendo», e arriva a proporre di trascurare anche lo studio del greco e del latino, per occupare meglio tempo ed energie nello studio del pensiero dei filosofi antichi tradotti in volgare (anche in volgare lombardo, come egli sostiene, che ogni lingua può legittimamente trasmettere il pensiero).

Al di là della posizione autonoma dello Speroni, è possibile rinvenire, nella congerie di trattati fioriti sul problema della lingua, due grandi filoni, che si ricollegano alle posizioni dei teorici più autorevoli. Alla tesi del fiorentinismo bembesco, che sarà definitivamente accolta nella seconda metà del Cinquecento (soprattutto dal Salviati) si oppone quella della «lingua cortigiana», che trova nel Castiglione il più illustre assertore, e quella, sostanzialmente analoga, della «lingua italiana» sostenuta dal Trissino.

Primo fautore della «lingua cortigiana» è, all’inizio del secolo, Vincenzo Colli[5], detto il Calmeta, dal nome di un perso­naggio del Filocolo ricordato dal Bembo nelle Prose. Pur essendo perduta la sua opera più importante, il suo pensiero si può ricostruire attraverso la testimonianza del Bembo, che lo udì direttamente alla corte di Urbino. Egli propone una lingua che accolga elementi delle varie regioni italiane e prenda come modello l’ambiente raffinato ed eterogeneo della corte romana, riecheg­giando i canoni della curialità e dell’aulicità del De vulgari eloquenza.

Simili soluzioni furono proposte da altri letterati: Mario Equicola[6], Angelo Colocci[7], Giovanni Filoteo Achillini[8]. Nella pre­fazione del 1509 del Libro de natura de Amore, l’Equicola esalta con particolare vigore l’uso di una «lingua cortigiana» che tragga contributi dalle varie parlate italiane, mostrando assoluto disprezzo per le caratteristiche foniche e morfologiche della lingua toscana; mentre all’autorità di Dante e del Petrarca si ricollega Angelo Colocci per difendere la tesi di una lingua non legata alla pura toscanità. Ma è con il Castiglione che la tesi della «lingua cortigiana» viene tradizionalmente associata a partire dal Cesano del Tolomei[9], come al suo più auto­revole difensore. Il problema della lingua è trattato nel Cortegiano (cc. XXVIII-XXXIX del primo libro), e toccato anche nella lettera dedicatoria del 1527 premessa all’edizione aldina del trattato.

Non sfuggono al Castiglione le ragioni del primato dei Toscani (c. XXXII), ma, pur pensando ad una lingua colta e letteraria, egli rifiuta il purismo arcaicizzante per una lucida consapevolezza dei rapporti esistenti tra lingua parlata e lingua scritta e del necessario evolversi della lingua stessa (c. XXXVII). In pacata polemica con le opinioni del Bembo e di quanti, sulle orme di lui, si richiamano all’esempio della prosa boccaccesca rifiutando l’uso corrente, il Castiglione rivendica il diritto di impiegare termini e forme usati nelle corti «delle città nobili d’Italia, dove concor­rono uomini savi ingeniosi ed eloquenti». Anche il canone dell’imitazione è sotto­posto a revisione e accettato non con pedanteria e limitatezza da grammatico, ma con larghezza di artista, che ammette la possibilità di assumere a modelli non solo Petrarca e Boccaccio, ma anche autori più recenti, quali Poliziàno, Lorenzo il Ma­gnifico, Francesco Diacceto[10]. Tuttavia, più che alle teorie dei moderni assertori della «lingua cortigiana», le idee del Castiglione si ispirano a quel superiore ideale di equilibrio e di misura che si pone a cifra di tutta la sua opera, e che gli suggerisce anche di emulare gli scrittori latini, senza impedirgli con ciò di accogliere quando sia necessario «alcuni di quelli termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati».

Alla discrezione e alla pacatezza del Castiglione, fa riscontro l’atteggiamento risoluto di Gian Giorgio Trissino, personaggio di primo piano in quasi tutti i dibattiti letterari della metà del secolo, nei quali volle assu­mersi il ruolo di arbitro, cercando di mediare la tradizione culturale del Nord con le esperienze fiorentine e romane. Egli pretende di fondare la teoria di una comune lingua italiana sull’autorità del De vulgari eloquentia, da lui riscoperto, attribuito a Dante, e tradotto nel 1529, sul quale si basa per sostenere che la lingua usata dagli scrittori non deve essere chiamata toscana o fiorentina ma italiana. Ai letterati toscani, come il Firenzuola[11] e il Tolomei, concordi nel rifiutare sdegnosamente la proposta, il Trissino replica col dialogo Il Castellano, in cui le posizioni dell’autore, espresse da Giovanni Rucellai[12], comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo dell’opera) e appoggiate da Jacopo Sannazaro.

Distinguendo l’uso toscano da quello cortigiano e comune, il Trissino osserva che la lingua dei grandi trecentisti non si può far coincidere con la parlata fiorentina o toscana. Ritiene anzi che le loro opere siano meglio intese dai Lombardi che dai Toscani, e ciò perché Dante, Petrarca e Boccaccio hanno cercato di elevarsi sulle particolarità dialettali per giungere a una lingua aulica e curiale comprensibile all’Italia tutta. Il Trissino, in realtà, non ricusa la tradizione toscana, ma avverte l’esigenza di arricchire una lingua ritenuta ancora imperfetta, utilizzando neologismi e arcaismi, parole di uso comune e forme desunte dai poeti. Nel rifiuto della denominazione di «volgare», salva tuttavia il concetto di una lingua aristocratica e letteraria adatta agli scrittori e affatto diversa da quella del volgo.

La tesi della «comune lingua italiana» difesa dal Trissino, trova consensi da parte di altri letterati non toscani quali il veneto Girolamo Muzio[13], autore delle Battaglie in difesa dell’italica lingua (edite postume nel 1582), il bellunese Giovan Pierio Valeriano[14], nel Dialogo della volgare lingua composto probabilmente nel 1524, ma pubblicato solo nel 1620. Più vivaci furono invece le reazioni che essa suscitò a Firenze e in Toscana, prima fra tutte quella del Machiavelli. Il suo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, composto probabilmente nell’autunno 1514, prende spunto dalle discussioni degli Orti Oricellari intorno al De vulgari eloquentia, per assumere la difesa della fiorentinità della lingua contro «i meno inonesti» che la definiscono toscana e gli «inonestissimi» che la considerano italiana.

Essa si fonda anzitutto su una concezione naturalistica del linguaggio: Dante, Petrarca e Boccaccio furono grandi perché nati a Firenze, e in fiorentino puro furono scritte le loro opere, benché solo Boccaccio lo dichiari esplicitamente, mentre Petrarca lo sottintende e Dante sostiene addirittura di aver usato una «lingua curiale». Dall’atteggiamento politico antifiorentino di Dante, deduce che anche le sue tesi linguistiche nascono da astio contro la patria: le argomentazioni del De vul­gari eloquentia sarebbero perciò poco attendibili oltre che prive di obiettività, e la lingua dantesca può essere considerata fiorentino puro. La strenua difesa del primato fiorentino, aliena da ogni grettezza campanilistica, viene condotta con acume e chiarezza attraverso un esame comparato con altre parlate italiane sotto il profilo fonetico e morfologico. Affrontando su un piano più generale il problema degli apporti esterni, Machiavelli esalta la capacità del fiorentino di accogliere e assimi­lare neologismi e termini forestieri legittimandone l’uso grazie alla completa integrazione con la parlata locale.

Il Dialogo del Machiavelli venne pubblicato per la prima volta nel 1730, in appendice all’Ercolano di Benedetto Varchi. Fra i sostenitori della lingua fiorentina, il Varchi assume una posizione particolare, perché nel definire la lingua preferisce valersi – più che di argomenti empirici – delle distinzioni di generi, specie e individui proprie della filosofia. Nell’opera, conclusa nel 1564 e pubblicata nel 1570, si riferisce un dialogo che si finge avvenuto fra il Varchi stesso e Cesare Hercolani[15]. La preminenza del fiorentino vi appare pressoché indiscussa, ma notevole è anche la simpatia per la tesi arcaicizzante del Bembo, e l’importanza attribuita ai letterati nel processo di formazione del linguaggio.

Maggiore rilevanza storica hanno le tesi esposte nel Cesano di Claudio Tolomei, composto intorno al 1528 e pubblicato, all’insaputa dell’autore, nel 1555. Da una serie di discorsi sul modo migliore di definire la lingua, deriva un quadro completo delle varie teorie sulla questione della lingua; ma la parte più ampia è riservata al discorso di Gabriele Cesano[16], portavoce dell’autore, che pone il problema del nome da attribuire al volgare risalendo a quello dell’origine delle lingue. Con mirabile lucidità di pensiero, conduce una serrata argomentazione, nella quale, adducendo ragioni naturali, estetiche e storiche, difende l’eccellenza della parlata toscana; ma, senza nulla togliere all’importanza dei grandi trecentisti fioren­tini, il Tolomei rende omaggio anche a Guittone, Bonagiunta, Cino da Pistola, i senesi. Si compiace, infine di scorgere anche nell’età sua tanti promettenti scrittori i quali, accettando la tesi della toscanità e scrivendo in tale lingua, sapranno renderla sempre più perfetta e condurla «all’ultima finezza».

***NOTE***

[1] Carlo Dionisotti, Introduzione, in Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, UTET, Torino, 1978, pag 15.

[2] Leonardo Salviati (1540-1589), appartenente a un’illustre famiglia fiorentina le cui vicende si intrecciano con quelle dei Medici, divenne console dell’Accademia fiorentina nel 1566 e Cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano nel 1569. La sua fama è legata soprattutto alla fondazione dell’Accademia della Crusca (1582-1583) e al progetto di un Vocabolario storico ‘nazionale’ che gli accademici, dopo la sua morte, realizzarono in circa venti anni di lavoro e vide la luce a Venezia nel 1612. Le sue opere più importanti sono l’Orazione in lode della fiorentina favella (1564), l’edizione del Decameron (1582), sollecitata dal granduca Francesco I, e gli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decameron, in cui non solo si enunciavano i principi che avevano presieduto all’edizione boccacciana, ma si trattavano più generali questioni grammaticali e retoriche.

[3] Sperone Speroni degli Alvarotti (Padova, 1500 – Padova, 1588), di antica famiglia padovana, terminati gli studi, a soli diciotto anni, divenne professore di logica dell’Università di Padova. Tuttavia, dopo pochi anni di insegnamento, decise di approfondire gli studi a Bologna, dal famoso filosofo aristotelico Pietro Pomponazzi. Alla morte di questi, nel 1525, tornò a Padova dove insegnò per altri tre anni, fino alla morte del padre; dopo di che dovette occuparsi attivamente della sua famiglia. A questo periodo risale la composizione delle opere dialogiche che verranno pubblicate dall’amico Daniele Barbaro nel 1542, all’insaputa dell’autore, con il titolo di Dialogi. Membro dell’Accademia degli Infiammati e amico di Torquato Tasso si occupò della revisione della Gerusalemme liberata. Scrisse anche la tragedia Canace, pubblicata a Venezia nel 1546, che sollevò ben presto aspre polemiche, che si protrassero sin quasi alla fine del secolo. Nel 1560 si trasferì a Roma dove divenne amico di Annibal Caro, ma già nel 1564 fece ritorno a Padova. Tra gli scritti di questi ultimi anni, accanto all’Apologia dei dialogi (1578), sono da ricordare i Discorsi Su Dante, Sull’Eneide, Sull’Orlando furioso e il Dialogo della istoria.

[4] Lazzaro Bonamico (Bassano del Grappa, 1479 – Padova, 1552) dopo aver compiuto i primi studi nella sua città natale passò all’Università di Padova, dove fu allievo e amico di Pietro Pomponazzi, di Reginald Pole e di Pietro Bembo; nel 1510 fu precettore a Mantova di Francesco Cantelmo e di Galeazzo Gonzaga. Nel 1521 fu chiamato a Roma da Papa Leone X, nel 1527 passò a Venezia e, nel 1530, fu nominato lettore di greco e latino nell’Università di Padova, sostenendo la superiorità del latino sul volgare e dello stile classico di Cicerone e di Virgilio.

[5] Vincenzo Colli (Castelnuovo Scrivia, 1460 circa – Roma, 1508), appartenente ad una famiglia nobile originaria di Vigevano, seguì gli studi presso l’Accademia di Paolo Cortese a Roma, dove strinse amicizia con Serafino Aquilano. Terminati gli studi si recò a Milano presso la Corte del Moro dove divenne segretario di Beatrice d’Este alla quale dedicò un poema in terza rima dal titolo i Triumphi nel quale piangeva la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1497. Verso il 1500 fu al servizio di Cesare Borgia e nel periodo tra settembre e giugno del 1501 lo seguì in tutti i suoi spostamenti; lasciato il Borgia il poeta si spostò ad Urbino dove venne preso al servizio di Ercole Pio e in seguito a quello di Francesco Maria I della Rovere. Con i suoi Nove libri della volgare poesia, oggi andati perduti, le Annotazioni e iudìci e soprattutto con la Vita di Serafino Aquilano, pubblicata a Bologna nel 1504, dimostrò di essere uno tra i più validi critici letterari del tempo.

[6] Mario Equicola (Alvito, 1470 ca. – Mantova, 1525) si trasferì assai giovane dalla natia Alvito a Napoli, dove fu membro dell’Accademia Pontaniana. Si recò poi a Firenze, dove studiò con Marsilio Ficino, e in seguito si trasferì a Mantova alla corte di Isabella d’Este e Federico Gonzaga. Oltre al Libro de natura de amore, composto in latino e tradotto in volgare nel 1525, che mescola elementi derivati da Marsilio Ficino con echi stilnovistici, importante è anche l’opera Istituzioni del comporre in ogni sorta di rima della lingua volgare, pubblicata postuma nel 1541.

[7] Angelo Colocci (Jesi, 1474 – Roma, 1549) giunse a Roma nel 1497 e dal 1511 lavorò come segretario apostolico, una posizione impegnativa che non gli consentì di dedicarsi molto alla sua passione letteraria privata e che, allo stesso tempo, lo colloca nel centro sociale degli umanisti alla corte di papa Giulio II. Colocci era un poeta in lingua latina di una certa reputazione tra gli eruditi suoi contemporanei, un antiquario dalla notevole conoscenza dell’antica metrologia e degli “arnesi sacrificali”, e un sapiente collezionista di sculture romane, inscrizioni, medaglie e gemme intagliate. Colocci, inoltre, fu uno dei primi a scoprire e catalogare la poesia provenzale. Nel 1518, dopo la morte della moglie, prese gli ordini minori e nel 1537 venne creatovescovo di Nocera.

[8] Giovanni Filoteo Achillini (Bologna, 1466 – Bologna, 13 agosto 1538), poeta, letterato e umanista, pubblicò nel 1504 le Collettanee Grece Latine e Vulgari per diversi Auctori Moderni nella Morte de l’ardente Seraphino Aquilano, una raccolta di poesie di compianto, scritte da diversi autori, per la morte del poeta aquilano Serafino de’ Ciminelli: egli vi incluse nove suoi sonetti. Quell’anno stesso concluse il poema Viridario, pubblicato nel 1513: di genere cavalleresco, in ottave, misto di episodi originali e altri ripresi dalla tradizione classica, ha frequenti digressioni nelle quali l’Achillini mostra la sua erudizione e cita personaggi della cultura dell’epoca. Nel 1523 pubblicò Il Fidele, poema in terzine composto di ben 100 canti, nei quali il poeta, imitando Dante, s’immagina in compagnia della personificazione della Fede, mandata da Dio a istruirlo sulla teologia e su ogni sorta di dottrina. L’Achillini mosse anche a Dante l’accusa di aver plagiato, scrivendo il Convivio, un’opera per altro sconosciuta del bolognese Guido Guinizelli, il Consesso. L’intento che l’Achillini si proponeva era quello di affermare la priorità poetica e letteraria della lingua volgare espressa a Bologna dal padre del Dolce Stil Novo. Alle polemiche che inevitabilmente seguirono, egli rispose nel 1536 con le Annotazioni della volgar lingua, nelle quali ribadiva la sua convinzione che il volgare bolognese potesse costituire il modello di lingua letteraria valido per tutta la penisola.

[9] Angelo Claudio Tolomei (Asciano, 1492 ca. – Roma, 1556) studiò diritto a Bologna, dove nel 1514 pubblicò il poemetto in ottava rima Laude delle Donne Bolognesi. Nel biennio 1516-18 fu lettore di diritto civile all’Università di Siena; risalgono a questo periodo due opere in lingua latina: De corruptis verbis e le Disputationes et paradoxa iuris civilis, andata perduta. Esiliato dalla città natale nel 1526 per la sua politica favorevole ai Medici, e si recò dapprima a Roma e quindi a Piacenza, alla corte di Pier Luigi Farnese. Nel 1549 fu nominato vescovo di Curzola. Claudio Tolomei fu un poligrafo: scrisse di storia, di diritto, di critica letteraria, di filologia, e scrisse orazioni politiche, lettere e versi fra i quali furono apprezzati alcuni sonetti idilliaci. Nell’opera Versi et regole de la nuoua poesia toscana del 1539, Tolomei espose i precetti per l’applicazione della metrica quantitativa alla lingua italiana, e presentò esempi di versificazione, suoi e di altri, composti secondo la tecnica proposta. Molto importanti furono i dialoghi Il polito del 1525, nel quale combatté le riforme ortografiche proposte dal Trissino, e Il Cesano (stampato 1555 senza il consenso dell’autore), dedicato alle polemiche sulla lingua italiana fra i fautori della fiorentinità e quelli dell’italianità, nel quale Tolomei sostenne la tesi della toscanità.

[10] Francesco Cattani da Diacceto (Firenze, 1466 – Firenze, 1522) studiò lettere classiche e filosofia a Pisa, dove ebbe compagno di studi Giovanni de’ Medici; conobbe Marsilio Ficino e ne fu fedele discepolo, continuandone l’opera di diffusione del platonismo. Nel 1499 scrisse il De pulchro e dal 1502 insegnò nello Studio di Firenze. Nel 1508 pubblicò il De amore, facendone poi la versione italiana. Rettore dell’Accademia platonica fiorentina, scrisse il Panegyricus in amorem e un commento al Simposio di Platone.

[11] Agnolo Firenzuola, ovvero Michelangelo Gerolamo de’ Giovannini da Firenzuola (Firenze, 1493 – Prato, 1543), era il primo di cinque figli del notaio Bastiano e di Lucrezia braccesi, figlia dell’umanista Alessandro. Crebbe in un ambiente intriso di spirito umanistico, per l’influenza del nonno materno, studiò giurisprudenza a Siena ed a Perugia, dove divenne amico di Pietro Aretino. Fu monaco vallombrosano, ricavando dalla sua professione benefici ed onori. Trasferitosi a Roma nel 1518, fu procuratore dell’Ordine vallombrosano presso la Curia e abate di Santa Prassede. Nel 1526 – pur conservando per concessione particolare del papa Clemente VII i benefici di cui era titolare e restando in seno alla Chiesa come chierico secolare – ottenne la dispensa dai voti professati. Nello stesso anno fu colpito da una lunga malattia e nel 1534 si trasferì a Prato dove  animò, non senza contrasti, la società letteraria locale. Tra le sue opere vanno ricordate il Discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana (l’unica sua opera che sia stata stampata in vita), un libello polemico contro la proposta di riforma ortografica avanzata da Gian Giorgio Trissino nell’Epistola a Clemente VII; il  volgarizzamento delle Metamorfosi di Apuleio; l’ambizioso progetto dei Ragionamenti, sul modello del Decameron, di cui ci sono pervenute soltanto la prima giornata e parte della seconda; infine il Dialogo delle bellezze delle donne intitolato Celso, dedicato «Alle nobili e belle donne pratesi».

[12] Giovanni Rucellai (Firenze, 1475 – Roma, 1525) era figlio di Bernardo, famoso umanista, e di Nannina de’ Medici, sorella maggiore diLorenzo il Magnifico. Quando nel 1494 i Medici vennero banditi da Firenze, anche la sua famiglia fu bandita per via della sua parentela, e si rifugiò a Roma. Ma dopo il ritorno dei Medici (1512), godette dell’appoggio del suo parente Lorenzo di Piero de’ Medici ricoprendo diversi incarichi di prestigio, finché Clemente VII  lo nominò castellano di Castel Sant’Angelo, ufficio che ricoprì insediandosi a Roma e conservandolo fino alla morte. La produzione del Rucellai è strettamente legata, insomma, al circolo culturale degli Orti Oricellari, inaugurato da suo padre Bernardo. Scrisse un’orazione in latino per l’elezione di papa Adriano VI, precettore dell’imperatore Carlo V; due tragedie, cioè l’Oreste, sul modello dell’Ifigenia in Tauride di Euripide, e la Rosamunda, basata sull’Ecuba dello stesso; in ultimo il breve poemetto in endecasillabi sciolti intitolato Le Api.

[13] Girolamo Muzio (Padova, 1496 – Firenze, 1576), letterato e umanista, prestò servizio in varie corti italiane ed Europee e fu inviato in missioni diplomatiche in Italia e all’estero. Lavorò alla corte di Massimiliano I d’Asburgo, e di Carlo V. Ad Urbino fu precettore del duca Francesco Maria II e di Torquato Tasso. Scrisse trattati sulla vita di corte (Il duello, 1550, Il gentiluomo, 1571) e sulla religione (Vergeriane, 1550, Lettere catholicae, 1571), nonché opere poetiche e un trattato sull’arte poetica in endecasillabi sciolti (1551).

[14] Giovanni Pietro Bolzani Dalle Fosse, meglio noto con lo pseudonimo di Pierio Valeriano, (Belluno, 1477 – Padova, 1558) fu un umanista, teologo e scrittore, allievo di Andrea Giovanni Lascaris. Dopo la morte del padre si trasferì a Venezia presso lo zio Urbano (1493), che nella città gestiva una scuola di lingua greca e collaborava con l’editore Aldo Manuzio. Giunto in seguito a Roma, fu assunto nella corte papale e ottenne la cattedra d’eloquenza al Collegio Romano. Ordinato in seguito presbitero ottenne una missio canonica a Belluno, ma nel 1527 lasciò per sempre la città natale per recarsi dapprima a Bologna, poi a Ferrara e infine a Padova, dove visse fino alla morte. L’opera principale di Pierio Valeriano sono gli Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum aliarumque gentium litteris commentariorum libri LVIII, composti da ben 60 libri ognuno dei quali si occupa della descrizione di un animale di una pianta o di una parte del corpo. In quest’opera Valeriano interpreta i geroglifici egiziani come esprimenti una lingua sapienziale.

[15] Cesare Hercolani (Forlì, 1499 – Forlì, 1534), capitano di ventura di simpatie ghibelline, militò sotto le bandiere imperiali acquistando fama come partecipante alla battaglia di Pavia (1525), che contribuì a risolvere in maniera determinante. Nel 1534 venne ucciso a Forlì nel proprio palazzo da Vincenzo Pirazzini accompagnato da altri sicari guelfi.

[16] Gabriele Maria Cesano (Pisa, 10 gennaio 1490 – Saluzzo, 27 luglio 1568) era nato da una famiglia nobile pisana nel 1490, e già si in giovane età dedicò agli studi di letteratura antica e della filosofia. Scrisse pochi saggi come grecista e linguista ma le sue relazioni con i letterati dell’epoca sono note. Fu amico del cardinale Ippolito de’ Medici e fu anche il consigliere spirituale di Caterina de’ Medici, duchessa d’Urbino e futura regina di Francia. Paolo V lo elesse vescovo di Saluzzo nel 1556 per i vari favori resi alla Chiesa.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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