Zoom
Cerca
Marco Michelini | 26 Aprile 2017

Oggigiorno in Italia si celebra e si commemora di tutto e di più: Anniversari della liberazione, giornate della memoria, giornate del ricordo e quant’altro. Ma la nostra Repubblica, il nostro paese, non è ancora riuscito a spendere una sola parola di vero cordoglio, un solo minuto di silenzio, per commemorare quei 9.406 soldati italiani che, dopo lo sfascio dell’8 settembre, a seguito dell’annuncio dell’Armistizio, vennero barbaramente trucidati dalle truppe tedesche a Cefalonia, e ciò in dispregio di qualsiasi codice di comportamento, non solo militare ma ancor più umano.

Gli 11.700 italiani appartenenti alla divisione Acqui, al comando del Generale Antonio Gandin, all’indomani dell’Armistizio firmato il 3 settembre a Cassibile dal Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, vennero letteralmente e vergognosamente abbandonati a se stessi sia dal proprio paese che dal Comando delle truppe Alleate. E tutti quei giovani tra i venti e i trent’anni, contadini, operai, impiegati, professori, ingegneri, ecc., furono costretti loro malgrado – dal destino della guerra e della storia – a trasformarsi in guerrieri ed eroi per tenere fede a un giuramento: quello di servire il loro paese.  Sulla piccola isola greca di Cefalonia, come scrive Alfio Caruso nel suo drammatico ed appassionato libro Italiani dovete morire, essi furono chiamati «a scegliere fra la vita e l’onore. Scelsero l’onore sacrificando la vita per un’Italia che dapprima li abbandonò e poi li ha cancellati.»

In quei tristi giorni del settembre del 1943 i giovani della divisione Acqui (ma erano presenti anche finanzieri, Carabinieri ed elementi della Regia Marina) scrissero forse «la pagina più nobile dell’esercito italiano durante la seconda guerra mondiale.» Un privilegio pagato col sangue.

Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar

Devi essere collegato per lasciare un commento.