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Marco M. G. Michelini | 28 Dicembre 2010

[1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari.

[2] Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis immorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt.

[3] Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem impedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas.

[4] ‘Sed modo’ inquis ‘hunc librum evolvere volo, modo illum.’ Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; et cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas.

[5] Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid apprehendo. Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum – soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator -: ‘honesta’ inquit ‘res est laeta paupertas’.

[6] Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non acquisita sed acquirenda computat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale.

 

Da ciò che mi scrivi e da quanto sento dire, nutro per te buone speranze: non corri qua e là e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione è propria di un’infermità interiore: ritengo, invece, che il primo segno di un animo sereno sia la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi.

Ma bada che anche il fatto di leggere molti autori e libri di ogni genere può essere segno di incostanza e di volubilità. Bisogna che ti soffermi su determinati scrittori e che ti nutri di loro, se vuoi ricavarne un durevole profitto spirituale. Chi è dappertutto, non è in alcun luogo. A chi trascorre tutta la vita a vagabondare accade di avere molti conoscenti, ma nessun amico. Lo stesso inevitabilmente accade a coloro che non si dedicano intensamente allo studio di alcun autore, ma scorrono ogni argomento in fretta e alla svelta.

Il cibo che, appena ingerito, viene subito vomitato, non giova né viene assimilato dal corpo. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiamento dei farmaci; non riesce a cicatrizzarsi la ferita sulla quale si sperimentano medicamenti diversi. Una pianta, se viene trapiantata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri servono solo a distrarre. Quindi dal momento che non puoi leggere tutti i libri che potresti avere, è sufficiente possederne quanti ne puoi leggere.

«Ma,» ribatti, «a me piace sfogliare ora questo libro, ora quello.» Assaggiare molti cibi è proprio di uno stomaco nauseato; cibi vari e contrari non nutrono, intossicano. Pertanto leggi sempre autori di valore riconosciuto, e se alle volte ti verrà in mente di passare ad altri, fa poi sempre ritorno a quelli di prima. Procurati ogni giorno un aiuto contro la povertà, contro la morte e, non di meno, contro le altre calamità; e quando avrai letto molte cose, scegline una, che tu possa assimilare in quel giorno.

Anch’io faccio così; dalle molte letture ricavo qualche cosa. Questo è il frutto di oggi, che ho tratto da Epicuro (infatti, è mia abitudine penetrare nell’accampamento nemico non da disertore, ma da esploratore); «Una povertà accettata lietamente» egli dice «è piena di decoro.»

Ma in verità non è povertà, se è accettata lietamente. Non è povero chi possiede poco, ma chi desidera di più. Cosa importa infatti quanto uno custodisca nel forziere o quanto nei granai, quanti capi di bestiame possieda o quanti siano i redditi da usura, se ha gli occhi fissi sulla roba altrui e fa il calcolo non di quanto ha acquisito, ma di quanto vorrebbe procurarsi? Domandi quale sia la giusta misura della ricchezza? Primo avere quanto è necessario, secondo quanto basta. Stammi bene.

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