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Marco Michelini | 22 Maggio 2012

XVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Proice omnia ista, si sapis, immo ut sapias, et ad bonam mentem magno cursu ac totis viribus tende; si quid est quo teneris, aut expedi aut incide. ‘Moratur’ inquis ‘me res familiaris; sic illam disponere volo ut sufficere nihil agenti possit, ne aut paupertas mihi oneri sit aut ego alicui.’

[2] Cum hoc dicis, non videris vim ac potentiam eius de quo cogitas boni nosse; et summam quidem rei pervides, quantum philosophia prosit, partes autem nondum satis subtiliter dispicis, necdum scis quantum ubique nos adiuvet, quemadmodum et in maximis, ut Ciceronis utar verbo, ‘opituletur’ <et> in minima descendat. Mihi crede, advoca illam in consilium: suadebit tibi ne ad calculos sedeas.

[3] Nempe hoc quaeris et hoc ista dilatione vis consequi, ne tibi paupertas timenda sit: quid si appetenda est? Multis ad philosophandum obstitere divitiae: paupertas expedita est, secura est. Cum classicum cecinit, scit non se peti; cum aqua conclamata est, quomodo exeat, non quid efferat, quaerit; [ut] si navigandum est, non strepunt portus nec unius comitatu inquieta sunt litora; non circumstat illam turba servorum, ad quos pascendos transmarinarum regionum est optanda fertilitas.

[4] Facile est pascere paucos ventres et bene institutos et nihil aliud desiderantes quam impleri: parvo fames constat, magno fastidium. Paupertas contenta est desideriis instantibus satis facere: quid est ergo quare hanc recuses contubernalem cuius mores sanus dives imitatur?

[5] Si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis. Non potest studium salutare fieri sine frugalitatis cura; frugalitas autem paupertas voluntaria est. Tolle itaque istas excusationes: ‘nondum habeo quantum sat est; si ad illam summam pervenero, tunc me totum philosophiae dabo’. Atqui nihil prius quam hoc parandum est quod tu differs et post cetera paras; ab hoc incipiendum est. ‘Parare’ inquis ‘unde vivam volo.’ Simul et parare <te> disce: si quid te vetat bene vivere, bene mori non vetat.

[6] Non est quod nos paupertas a philosophia revocet, ne egestas quidem. Toleranda est enim ad hoc properantibus vel fames; quam toleravere quidam in obsidionibus, et quod aliud erat illius patientiae praemium quam in arbitrium non cadere victoris? Quanto hoc maius est quod promittitur: perpetua libertas, nullius nec hominis nec dei timor. Ecquid vel esurienti ad ista veniendum est?

[7] Perpessi sunt exercitus inopiam omnium rerum, vixerunt herbarum radicibus et dictu foedis tulerunt famem; haec omnia passi sunt pro regno, quo magis mireris, alieno: dubitabit aliquis ferre paupertatem ut animum furoribus liberet? Non est ergo prius acquirendum: licet ad philosophiam etiam sine viatico pervenire.

[8] Ita est? cum omnia habueris, tunc habere et sapientiam voles? haec erit ultimum vitae instrumentum et, ut ita dicam, additamentum? Tu vero, sive aliquid habes, iam philosophare – unde enim scis an iam nimis habeas? -, sive nihil, hoc prius quaere quam quicquam.

[9] ‘At necessaria deerunt.’ Primum deesse non poterunt, quia natura minimum petit, naturae autem se sapiens accommodat. Sed si necessitates ultimae inciderint, iamdudum exibit e vita et molestus sibi esse desinet. Si vero exiguum erit et angustum quo possit vita produci, id boni consulet nec ultra necessaria sollicitus aut anxius ventri et scapulis suum reddet et occupationes divitum concursationesque ad divitias euntium securus laetusque ridebit [10] ac dicet, ‘quid in longum ipse te differs? expectabisne fenoris quaestum aut ex merce compendium aut tabulas beati senis, cum fieri possis statim dives? Repraesentat opes sapientia, quas cuicumque fecit supervacuas dedit.’ Haec ad alios pertinent: tu locupletibus propior es. Saeculum muta, nimis habes; idem est autem omni saeculo quod sat est.

[11] Poteram hoc loco epistulam claudere, nisi te male instituissem. Reges Parthos non potest quisquam salutare sine munere; tibi valedicere non licet gratis. Quid istic? ab Epicuro mutuum sumam: ‘multis parasse divitias non finis miseriarum fuit sed mutatio’. [12] Nec hoc miror; non est enim in rebus vitium sed in ipso animo. Illud quod paupertatem nobis gravem fecerat et divitias graves fecit. Quemadmodum nihil refert utrum aegrum in ligneo lecto an in aureo colloces – quocumque illum transtuleris, morbum secum suum transferet -, sic nihil refert utrum aeger animus in divitiis an in paupertate ponatur: malum illum suum sequitur. Vale.


 

Se sei saggio, anzi, per essere saggio, abbandona tutte queste faccende e subito con tutte le tue forze tendi alla saggezza; se c’è qualcosa che ti trattiene, cerca di liberartene oppure tronca di netto. “Mi trattiene,” dici, “la cura del patrimonio; vorrei disporlo in modo da poter vivere di rendita, per non essere gravato dalla povertà o gravare io stesso su qualcuno.”

Quando parli così, sembra che tu non conosca la forza e la potenza di quel bene che vai ricercando; hai una visione complessiva di quanto giovi la filosofia, ma non distingui ancora con sufficiente sottigliezza i particolari, non sai ancora quanto e in quali situazioni ci sia di aiuto, come ci “soccorra”, per dirla con Cicerone nelle circostanze più gravi e arrivi sino alle più piccole. Dammi retta, chiedile consiglio: ti persuaderà a non startene lì a far conti.

Questo cerchi e con codesti rinvii a questo vuoi arrivare, a non temere più la povertà: ma se bisogna ricercarla? Per molti la ricchezza è stata un ostacolo alla filosofia; il povero non ha ostacoli, non ha preoccupazioni. Quando risuona la tromba di guerra, sa di non essere in pericolo; quando viene dato l’allarme per un’alluvione, cerca come mettersi in salvo, non che cosa mettere in salvo; se deve fare un viaggio per mare, non c’è clamore in porto e sulla spiaggia fermento di gente al seguito di uno solo; non lo circonda una turba di servi il cui mantenimento richiede la fecondità delle terre d’oltremare.

È facile nutrire il ventre di poche persone temperanti, che non chiede altro se non di essere riempito: sfamare costa poco, saziare molto. La povertà si contenta di soddisfare solo le necessità impellenti: perché rifiuti una compagna di cui anche i ricchi, se hanno senno, seguono le abitudini?

Se vuoi dedicarti allo spirito, devi essere povero o vivere come un povero. Lo studio non può essere salutare se non si ricerca la frugalità e la frugalità è una povertà volontaria. Lascia, perciò da parte queste scuse: “Non possiedo ancora quanto basta; se riuscirò a metterlo insieme, allora mi dedicherò anima e corpo alla filosofia.” Ma non ci si deve procurare niente prima di quella filosofia che invece tu rimandi e hai intenzione di procurarti dopo tutto il resto. Proprio dalla filosofia bisogna cominciare. “Voglio conquistarmi il necessario per vivere”, sostieni. Ma contemporaneamente impara anche a preparare te stesso: se qualcosa ti impedisce di vivere bene, non ti impedisce di morire bene.

Non c’è motivo che la povertà o l’indigenza ci allontanino dalla filosofia. Chi vi aspira deve saper sopportare anche la fame; certuni la sopportarono durante gli assedi: eppure l’unico premio delle loro sofferenze era non cadere in balia dei vincitori! Quanto maggiore è il bene che ti viene promesso: una libertà perpetua, senza più timore né degli uomini, né della divinità. Anche chi ha fame deve arrivare a possedere questi beni?

Ci sono eserciti che hanno sofferto la mancanza di tutto, si sono nutriti di radici e sfamati con cose ripugnanti solo a nominarle; tutto questo l’hanno sopportato per un regno e – cosa più straordinaria – apparteneva ad altri: esiterà qualcuno a sopportare la povertà per liberarsi dalla furia delle passioni? Non c’è necessità di acquisire beni prima: si può arrivare alla filosofia anche senza provviste per il viaggio.

E così? Vuoi possedere tutto e poi avere anche la saggezza? Sarà il corredo di vita meno importante, e, come dire, un di più? Tu, se già possiedi qualcosa, dedicati alla filosofia (solo così puoi sapere se possiedi ormai abbastanza); se non possiedi niente, ricercala prima di qualsiasi altra cosa.

“Ma mi mancherà il necessario.” Anzitutto non potrà mancarti, perché la natura ha esigenze modestissime e il saggio si adegua alla natura. Ma se gli capiterà di trovarsi in condizioni decisamente critiche, subito abbandonerà la vita e cesserà di essere gravoso a se stesso. Se poi i suoi mezzi per tirare avanti saranno scarsi e limitati, si contenterà senza preoccuparsi o angustiarsi più del necessario e darà al suo stomaco e al suo corpo quanto occorre; sereno e felice se la riderà delle occupazioni dei ricchi e dell’affannarsi di quegli uomini che corrono dietro alla ricchezza, e dirà a se stesso: “Perché vai tanto per le lunghe? Vuoi aspettare i profitti dell’usura o gli utili del commercio o il testamento di un vecchio ricco, quando puoi diventare ricco subito? La saggezza procura subito la ricchezza: la dà rendendola superflua.” Ma questo non ti riguarda: tu sei più vicino ai ricchi. Cambia epoca, avrai sempre troppo; quanto basta è uguale in ogni tempo.

Potrei chiudere qui la mia lettera, se non ti avessi abituato male. Nessuno può accomiatarsi dai re Parti senza donare niente, così io non posso salutarti senza pagare. Che posso fare? Chiederò un prestito a Epicuro: “Per molti la ricchezza non ha segnato la fine delle loro miserie, ma solo un cambiamento.”

E non me ne stupisco: il male non sta nelle cose, ma nell’anima. Quello che ci aveva reso intollerabile la povertà, ci rende tale anche la ricchezza. Non ha importanza se fai coricare un ammalato su un letto di legno o d’oro: dovunque tu lo trasporti, porterà con sé la sua malattia; così non fa differenza se un animo infermo si trova nella ricchezza o nella povertà: il suo male lo segue. Stammi bene.

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