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Marco Michelini | 2 Dicembre 2020

Il dramma pastorale, altresì detto favola pastorale o commedia pastorale, è un genere teatrale che vide la nascita negli ambienti colti del Manierismo ed ebbe il suo massimo sviluppo nel Cinquecento e nel Seicento. L’antesignano del genere è il dramma satiresco di origine greca, le cui caratteristiche sarebbero state note soprattutto grazie ai rendiconti di Vitruvio[1]. Il dramma satiresco, infatti, prevedeva una commistione del genere tragico al genere comico, la cui ambientazione era sita in luoghi come boschi o campagne.

Negli ultimi decenni del Quattrocento esso si riafferma come genere teatrale se, tra i tanti sfarzosi spettacoli, ma rifacendosi all’idillio, alla bucolica e all’egloga (di origine virgiliana tramite le appunto Bucoliche), trasformando il dialogo in vera e propria struttura drammatica. Ed è proprio sul filone «dell’egloga dialogata che aveva avuto una notevole fortuna sul finire del secolo XV e aveva trovato il suo tono poetico nell’Orfeo del Poliziano (vedi cap.), e nella scia del gusto diffuso per la letteratura pastorale […], si continuò pur nel Cinquecento a portar sulla scena favole di pastori di semplicissima struttura e leggiadri miti rievocati con tenue grazia contemplativa, col proposito di accrescere diletto e varietà alle feste cortigiane»[2]. Fino alla metà del Seicento il genere continua ad avere fortuna e fra le opere più significative sono da ricordare il Tirsi di Baldassarre Castiglione (1506), l’Egle di Giovan Battita Giraldi Cinzio (1545), l’Aminta del Tasso (1573), mentre l’Endimione di Carlo Alessandro Guidi (1692) segna la fine di una formula ormai priva di interesse, che egualmente si era andata spegnendo in Spagna e in Inghilterra.

Il dramma pastorale cinquecentesco presenta un carattere di svago e d’intrattenimento e viene rappresentato a corte. L’intreccio della favola pastorale riguarda un amore contrastato che si risolve però felicemente; i personaggi sono pastori, ninfe (divinità minori che, secondo la mitologia classica, abitavano nel mare, nelle fonti, nei boschi, nei monti o nelle grotte) e satiri (divinità boscherecce, di aspetto in parte umano e in parte animalesco, con piccole corna, orecchie, barba, zampe e coda caprine; venivano rappresentati come amanti del suono, della danza, del bere; inseguivano le ninfe per ghermirle e con esse formavano il corteo di Bacco); l’ambiente è quello bucolico, il locus amoenus che richiama allegoricamente l’ambiente della corte. Il dramma pastorale costituisce una visione idealizzata del potere aristocratico. Gli autori di questo genere intendono suscitare il piacere e la meraviglia nel pubblico, creando una situazione che, sfiorata la catastrofe tragica, si risolve poi felicemente. Il mondo pastorale rappresentato ha quindi un valore rassicurante per la società cortigiana a cui è destinato. Il pubblico si divertiva poi a riconoscere nella finzione scenica personaggi e situazioni del mondo cortigiano. Nella struttura il dramma pastorale constava di un prologo, cinque atti in versi e cori. Particolare importanza assumevano gli intermezzi. Il pubblico di corte spesso apprezzava maggiormente la ricchezza e lo splendore di queste scenografie piuttosto che la rappresentazione drammatica. Da questo genere di spettacolo teatrale si originerà il melodramma.

Dal punto di vista formale, invece, il dramma pastorale si differenzia sostanzialmente dagli altri generi letterari, quali ad esempio la commedia o la tragedia: dalla commedia differisce in quanto non presenta situazioni comiche ambientate nel contesto cittadino, bensì temi seri e sentimentali, ambientati in un mondo favoloso; ma anche dalla tragedia si discosta poiché alla catastrofe finale sostituisce il lieto fine.

Nella struttura il dramma pastorale consta di un prologo, cinque atti in versi e cori. Particolare importanza assumono gli intermezzi. Il pubblico di corte di solito apprezzava maggiormente la ricchezza e lo splendore delle scenografie piuttosto che la rappresentazione drammatica in quanto tale. Gli elementi scenici si arricchirono così di accorgimenti scenografici spettacolari e appariscenti, così come i costumi degli attori; inoltre, gli scenari furono pensati appositamente per l’ambientazione bucolica, fornendo ad architetti come Sebastiano Serlio la materia sui cui lavorare per ideare nuove e stupefacenti macchine e sfondi per le rappresentazioni.

 

Giovan Battista Guarini

 

Giovan Battista Guarini, discendemte da un’illustre famiglia veronese, nacque a Ferrara nel 1538 da da Francesco e Orsina Macchiavelli. Dopo avere studiato a Padova, successe nel 1557 allo zio Alessandro nella cattedra di retorica e poetica dello Studio ferrarese. Risale a questi anni il suo matrimonio con Taddea di Niccolò Bendidio. Le sue rime dovettero presto incontrar favore presso la corte estense, al cui servizio, dopo un breve soggiorno a Padova, entrò in qualità di gentiluomo nel 1567. Iniziò così per il Guarini una stagione di gravosi impegni politici e di legazioni cui fu destinato dal duca Alfonso II[3]. Durante le ambascerie presso la corte sabauda, la Serenissima, la Curia pontificia e altre corti italiane, il G. ebbe occasione di affinare la sua eloquenza di uomo pubblico e di scaltrito cortigiano, esperto di una tecnica cancelleresca sempre più addestrata al linguaggio della dissimulazione politica.

Tra il 1574 e il 1576 intraprese una impegnativa avventurosa ed infelice ambasceria in terra di Polonia, per sostenerne le ambizioni al trono (rimasto vacante) di Alfonso II. Gli sforzi di promuovere il proprio signore furono però vani, perché le elezioni videro una netta vittoria di Stefano Báthory[4], il voivoda di Transilvania. Ritornato a Ferrara, si ritrovò ben presto al centro degli onori cortigiani come poeta ufficiale e richiesto madrigalista delle serate letterarie e musicali della società ferrarese. Oltre i confini del ducato estense gli fu tributata la consacrazione a livello nazionale dal fiorentino Leonardo Salviati, che nel II libro dei suoi Avvertimenti sovra il Decamerone (Firenze 1586) lo designò nella triade degli “Italiani” illustri del suo tempo.

Insoddisfatto del trattamento economico riservatogli da Alfonso II, intraprese con il duca un lungo braccio di ferro che gli varrà, alla fine del 1583, il licenziamento. Il Guarini si trasferì allora nella sua villa nel Polesine, per provvedere ad affari domestici e liti giudiziarie, alternando soggiorni nella sua adorata Padova. In questo periodo scrisse la commedia classicistica l’Idropica – riscosse scarso interesse già nel suo tempo – e poté attendere con maggior agio alla stesura del Pastor fido, già iniziato nel 1580.

Nel 1585 si recò a Torino, nel tentativo di trovare una sistemazione presso la corte sabauda. Il soggiorno, tuttavia, dovette essere brevissimo, poiché Alfonso II si decise a richiamarlo a Ferrara con la prospettiva di un degno incarico di segretario. Stanco di peregrinazioni, ma molto più disilluso sulle reali possibilità di un’avventura intellettuale affrancata dal servizio cortigiano, il Guarini rientrava a Ferrara con lo spirito critico di chi, pur reintegrato nei suoi onori, non si tratteneva dal commentare acremente come non vi fosse peggiore «condizione» e «più incommoda» che «l’esser servidor vecchio, e segretario nuovo». A Ferrara, comunque, riprese il suo consueto attivismo e terminò la composizione del Pastor fido.

Nel 1588, a causa dell’ambiguità con cui il duca aveva cercato di dirimere la lite giudiziaria insorta tra il Guarini e il figlio Alessandro, ma soprattutto per l’insofferenza verso i servizi e i doveri di cortigiano, lasciò bruscamente e definitivamente la corte estense, suscitando lo sdegno di Alfonso, che si adoperò poi a fargli perdere i collocamenti che si era successivamente procurati. Iniziò così un lungo periodo di precarietà esistenziale e politica, di tediose querelles con gli avversari del Pastor fido, di dissapori conclusi in tribunale e lutti familiari.

Dopo la morte di Alfonso II, nel 1599 riuscì a trovare una sistemazione presso la corte medicea. Frutto della stagione fiorentina è un trattato Della politica libertà, che celebra con un’inevitabile e talvolta fastidiosa esaltazione encomiastica i meriti del principato mediceo. Il libello non appare però del tutto privo di qualità nell’acuto giudizio storico sulle vicende e le istituzioni del proprio tempo e nella valorizzazione delle prerogative civili, di tradizione guicciardiniana, indispensabili a edificare un nuovo ordine sociale di cui il principe fosse garante, in collaborazione con un tipo moderno, e non feudale, di gentiluomo rispettoso delle leggi.

Nel 1602 il Guarini troncò anche il rapporto con i Medici, e si stabilì presso la corte di Urbino, ove il duca intendeva servirsi della sua penna per la revisione di due storie della dinastia; ma il Guarini si sottrasse al compito adducendo quale motivo l’amicizia con gli autori. Ritornò allora a Ferrara, dove spese gli ultimi anni della sua vita attendendo alla composizione di tre opere andate perdute. La morte lo colse a Venezia nel 1612.

Il nome del Guarini è rimasto legato è rimasto legato alla favola pastorale Il pastor fido, da porre accanto all’Aminta del Tasso come uno degli esempi più significativi della produzione drammatica nel secondo Cinquecento. L’autore volle chiamarlo «tragicommedia» nell’intento di avviare un genere nuovo con un’opera che fosse anche tecnicamente universale, una sintesi di tutti i generi e, coerente con questa ambizione, ideò una grandiosa costruzione, con intreccio di tre favole, un gran numero di personaggi e ben quattro cori.

Attorno al Pastor fido si accese un’aspra polemica, i cui riflessi sono testimoniati dal Compendio della poesia tragicomica (che ne accompagnava l’edizione definitiva del 1602), notevole arche per lo sforzo, operato dall’autore, di liberazione dalle pastoie di un rigido aristotelismo.

Secondo le formulazioni teoriche del Guarini, il comico deve costituire l’elemento propulsore che muove il meccanismo dell’azione teatrale; ma solo la componente tragica può conferire alle vicende un più profondo significato di esemplare moralità, che è esigenza irrinunciabile della poetica guariniana. L’antefatto della favola, offerto da un racconto dello storico greco Pausania il Periegeta[5], crea perciò intorno agli elementi tipici dell’intreccio comico (travestimenti, equivoci, agnizione) una dimen­sione mitica, spogliandoli dal loro aspetto di quotidianità. L’Arcadia è incorsa da tempo nell’ira di Diana, che può essere placata, secondo l’oracolo, solo dalle nozze di due giovani di stirpe divina, Silvio e Amarilli, figli rispettivamente del sacerdote Montano e del pastore Titiro. Ma i due non si amano e ai loro genitori spetta il compito di tener fede all’oracolo, assolvendo la funzione di personaggi tragici, che agiscono come esecutori del Fato, ispirati da responsi divini.

In un’area propriamente tragicomica si sviluppano le vicende parallele delle due coppie di innamorati Mirtillo-Amarilli, Silvio-Dorinda, avviate entrambe, dopo varie vicissitudini che non di rado rischiano di precipitare nel dramma, a una felice conclu­sione, tipicamente comica, dalla quale il pubblico si attende « diletto e soddisfa­zione ». Montano riconosce il figlio creduto morto, Mirtillo, che può sposare Amarilli, essendo reciprocamente innamorati, e compiere così la volontà dell’oracolo, mentre Silvio rimane libero di tener fede alla promessa scambiata con Dorinda.

Motore dell’intreccio «comico» è il personaggio di Corisca, la donna capricciosa e sensuale, che, invaghitasi di Mirtillo, tenta di eliminare Amarilli con un inganno, che si risolverà però diversamente dal modo da lei previsto. La teoria estetica del Guarini le attribuisce una funzione «strumentale, che, mentre va machinando l’esterminio della rivale, dà occasione alla favola d’annodarsi. E perché, dovendo far tradimento sì grande all’amica, bisogna che fosse pessima donna, per questo il poeta con decoro conveniente la fa dir cose simili a lei, avvertendo che questa è una persona della parte comica, ma l’operazione è tragica».

E infatti, in ossequio alle convenzioni del genere comico, Corisca alla fine si redime, mentre Amarilli e Mirtillo, che per esigenze di costruzione drammatica devono sottostare fino a un certo punto alla sua iniziativa, riacquistano un ruolo autonomo e si avviano alla felice conclusione della loro vicenda, facendo trionfare l’ideologia nuziale, che è il tema originale proposto dal Guarini nel Pastor fido. Ne è simbolo Amarilli, che si presenta in scena per la prima volta esaltando il valore di rigenerazione del matrimonio, e, a poco a poco, rende partecipe anche Mirtillo di questa concezione dell’amore che si realizza nelle nozze e nella famiglia.

Ma è sempre attraverso Corisca, già importante per la funzione «strumentale» attribuitale dall’autore, che la sostanza moralistica del Pastor fido ha modo di tradursi in una chiara e polemica presa di posizione ideologica, perché il Guarini ne fa l’esponente della tipica mentalità cittadina e cortigiana, «mostrando ch’ella sia stata nutrita e ammaestrata nelle città, dove per ordinario i vizi sono maggiori e le persone in esse molto più licenziose». Al discorso di Amarilli si contrappone nel I atto il monologo di Corisca, che gloriandosi di «aver molti amanti», ripudia la fedeltà e la costanza, sentimenti fondamentali connessi al «legittimo amor», del quale incarna quella copia immorale che si pratica a corte. Smascherando la corruzione dell’istituto matrimoniale che quella società ha operato, il Guarini intende riproporre in via esemplare una polemica che mira a fon­dare un nuovo e più saldo modello di convivenza civile.

Per il Guarini il vero fine dell’arte, della poesia, non è «l’ammaestrare, ma il dilettare» ed alle critiche che gli venivano mosse dagli aristotelici puri, in nome dell’adesione rigorosa alle norme ed alle strutture, egli – insistendo sulla necessità di modificare e migliorare i meccanismi delle opere drammatiche, al fine di strapparle alla noiosa freddezza che rischiava di annientarle – opponeva il «consenso universale», cioè il giudizio del pubblico, che si basa esclusivamente sulle piacevoli percezioni degli individui.

«In questa affermazione dell’arte come puro diletto sensibile e in questa ambizione di novità e di stranezza, che tende a allargare e allentare i freni della poetica aristotelica, pur senza spezzarli e senza ribellarsi ai moduli del gusto classicistico, c’è già un netto presentimento della cultura e della poesia del secolo XVII. Ma il Pastor fido precorre gli spiriti dell’età barocca anche nel tono e nella materia dell’ispirazione: nella diffusa sensualità che lo pervade, e in quell’artificio evidente della struttura, e in parte del linguaggio poetico, che deriva da un eccesso di consapevolezza e di raffinatezza critica e cerca invano di mascherare una certa povertà e aridità di sentimento. Quel senso di chiuso e di artificioso, che fin da principio s’accompagnava alla rappresentazione del mondo pastorale e arcadico, concepito come mero pretesto alla effusione delle nostalgie idilliche e delle eleganze cortigiane del letterato umanista, tocca il culmine nel Pastor fido, dove si fa più forte lo stacco fra la struttura fittizia del dramma ed i momenti lirici, i quali tendono a prevalere e a campeggiare quasi soli. Cosicché da una parte sentiamo nel dramma il chiaro proposito di rinnovare una materia poetica esausta, complicando lo schema della vicenda attraverso la posizione e il vario intrecciarsi di tre storie d’amore, e l’ambizione di arricchire e variare lo stile con la magnificenza dei colori e la pompa delle immagini; dall’altra parte assistiamo alla facile vittoria degli elementi descrittivi e decorativi e all’espandersi e al dominare delle pause liriche e canore, nelle quali si esprime, compiaciuta, l’ispirazione erotica e voluttuosa e mollemente lasciva dello scrittore. L’elogio del bacio, l’esaltazione dell’amore inteso come contatto e appagamento dei sensi, la grazia di un sentimento che si compiace della propria raffinatezza e di una sua tenue malinconia, sono i motivi più intensi e più frequenti che sollevano e riempio di sé i blandi ritmi e la studiata musicalità del Pastor fido»[6].

 

*** NOTE AL TESTO ***

 

[1] Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. ca – dopo il 15 a.C. ca) architetto e scrittore romano, attivo nella seconda metà del I secolo a.C., viene considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi. La sua fama resta legata al suo trattato  De architectura (Sull’architettura), in dieci libri, dedicato ad Augusto (che gli aveva concesso una pensione), e che fu scritto probabilmente tra il 29 e il 23 a.C. Il De architectura è l’unico testo latino integro di architettura e pertanto il più importante, tra i pochi giunti, in modo più o meno frammentario, fino a noi; l’influenza sulla cultura occidentale è dovuta soprattutto a questa sua unicità. Tuttavia l’influenza dell’opera di Vitruvio sui suoi contemporanei sembra sia stata molto limitata, anche perché il suo trattato fu scritto in un momento in cui l’architettura romana stava per rinnovarsi profondamente con le grandi costruzioni in laterizio e l’utilizzo di volte e cupole, di cui Vitruvio praticamente non si occupa. D’altro canto, la sua autorità in campo tecnico e architettonico è testimoniata dai riferimenti alla sua opera presenti negli autori successivi come Frontino.

[2] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 176.

[3] Alfonso II d’Este (Ferrara, 1533 – Ferrara, 1597), figlio di Ercole II d’Este e di Renata di Francia, assunse il potere alla morte del padre nel 1559. Contrasse tre matrimoni: il primo con Lucrezia di Cosimo I de’ Medici, morta nel 1561; il secondo con Barbara d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo, morta nel 1572; il terzo con  Margherita Gonzaga, di 31 anni più giovane, che gli sopravvisse. Da tutti e tre i matrimoni non ebbe alcun figlio, per cui, alla sua morte, Ferrara, sino ad allora capitale del ducato estense, ritornò (quale antico feudo papale) sotto la sovranità dello Stato Pontificio, mentre Modena e Reggio passarono per volontà imperiale ad un ramo cadetto legittimato della casa d’Este.

[4] Stefano I Báthory, già Stefano IX di Transilvania (Szilágysomlyó, 1533 – Hrodna, 1586), era figlio del voivoda Stefano VIII Báthory. Con la morte di Sigismondo II di Polonia senza eredi maschi, il trono della Confederazione Polacco-Lituana, a quel tempo il più grande stato europeo ed uno dei più popolosi, divenne vacante. La figlia di Sigismondo, Anna Jagellona, riuscì a convincere la Dieta della Polonia ad accettare come sovrano il suo promesso sposo, Enrico di Valois. Enrico, però, alla morte di suo fratello (1575), abbandonò il trono polacco per divenire re di Francia. Il 12 dicembre 1575 la Dieta della Polonia, dietro pressioni del nunzio apostolico, elesse re della confederazione l’imperatore Massimiliano. La nobiltà si ribellò però alla scelta e pretese un sovrano polacco. Per salvare la situazione si risolse di eleggere quale monarca Anna Jagellona e di darla in moglie a Stefano Báthory: il tollerante voivoda di Transilvania era infatti ritenuto una scelta migliore dell’Asburgo, strenuo difensore della Controriforma.

[5] Pausania il Periegeta fu uno scrittore e geografo greco, forse di origine asiatica,  vissuto sotto gli Antonini, dal momento che cita ed esalta le opere urbanistiche in Grecia di Adriano (117-138), e il regno di Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180). La sua opera, in dieci libri, s’intitola Periegesi della Grecia; laddove per periegesi s’intende quel filone storiografico, soprattutto di epoca ellenistica, che, intorno a un itinerario geografico, raccoglie notizie storiche su popoli, persone e località, verificate, per quanto possibile, dall’esperienza diretta. L’opera ha deficienze e inesattezze sostanziali; le fonti, spesso di seconda mano, sono usate con scarso senso critico e artistico, ma, nonostante ciò, la Periegesi è una miniera di notizie preziose specialmente per l’archeologia e per la storia delle religioni.

[6] Natalino Sapegno, ibidem, pag. 178-179.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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