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Marco Michelini | 29 Febbraio 2024

Linea biografica

L’origine di Pietro Trapassi (chiamato poi, da Gravina, Metastasio[1]), altro esponente eccellente della nostra cultura primo‑settecentesca, è assai umile, certo assai più che quella di Vico e di Giannone. Infatti, Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi (questo il nome completo) nacque nel 1698 a Roma, da Felice – già mercante di Assisi che dopo essersi trasferito, in seguito a dissesti economici, nella città pontificia, vi aveva intrapreso la professione di soldato, poi di rivenditore di olii e legumi – e da Francesca Galastri, bolognese. E se in Vico e in Giannone la nascita borghese si può considerare fra le radici di quella loro futura presenza non certo marginale nelle esperienze di cultura e nelle tensioni del “ceto civile” nella società napoletana del primo Settecento, in Metastasio sono in qualche misura le “plebee” condizioni di partenza a segnarne, per dire così, il destino, di poeta – per altro assai ben rimunerato, pago e riveritissimo – al servizio di un potere fra i più prestigiosi del tempo, gli Asburgo. Circostanza, questa, che se potrà per un verso suscitare gli sdegni dell’aristocratico e a suo modo libertario Alfieri, situa Metastasio su una linea caratteristica della nostra cultura, in cui appunto non è raro il caso, sino allo stesso Novecento, di intellettuali di origine variamente modesta “assunti” dal potere, quale che sia, a celebrarne i riti, esplicitarne con la parola la provvidenzialità e la grandezza, filtrarne e renderne suasiva l’ideologia.

Non molti sono i dati salienti della biografia metastasiana, risolta per gran parte nell’avventura di poeta cesareo cui si è ora accennato. Avviato decenne a un appren-distato di orafo ma era già noto allora, negli ambienti colto-mondani di Roma, per le precocissime capacità di improvvisatore, cioè per la sua abilità di improvvisare versi attorno ad una tema assegnato. Nel 1709, in una simile occasione, si fermò ad ascoltarlo  Gianvincenzo Gravina, fondatore dell’Accademia dell’Arcadia, che, attratto dal talento poetico e dal fascino del ragazzo, lo accolse fra i propri allievi, facendone poi il suo protetto; e naturalmente il padre fu ben lieto di dare al figlio la possibilità di ricevere una buona educazione e di poter entrare nell’alta società.

Con l’intento di farlo diventare un giurista, Gravina iniziò a impartirgli lezioni di latino e di diritto, ma – allo stesso tempo – coltivò il suo talento letterario e mise in mostra il giovane prodigio nella sua casa e presso varie congreghe romane; così che, ben presto, Metastasio si trovò in competizione con i più celebri improvvisatori d’Italia. I giorni trascorsi in numerosi studi e le serate dedicate alle attività d’improvvisazione in ottanta strofe furono assai rovinosi per la salute di Pietro e sottoposero a tensione la sua facoltà poetica. Tuttavia, in quel critico momento, Gravina dovette recarsi in Calabria per affari. Decise di portare con sé il suo giovane allievo, affidandolo alle cure di un suo cugino di Scalea, il filosofo Gregorio Caloprese[2]. L’aria di mare (Scalea si trova sull’omonimo promontorio, in Calabria) fu cosa buona per il giovane Metastasio, tant’è che la sua salute si rivitalizzò. Gravina comprese dunque che non doveva più farlo improvvisare, se non in occasioni importanti, in modo che, una volta completata la sua educazione, potesse entrare in competizione con i più grandi poeti.

Sono questi anni importanti per la formazione intellettuale di questo ingegno vivacissimo ma ancora ovviamente immaturo, che dal magistero di Caloprese e Gravina deriva allora, si può pensare, soprattutto una lezione di rigore nei confronti di un talento naturale ancora tutto da imbrigliare. Così, obbedendo appunto ai voleri del suo patrono, intorno al 1712, sui quattordici anni, s’impegnò nella stesura di una tragedia nella maniera di Seneca, il Giustino, su un tema tratto dall’arduo poema L’Italia liberata da Goti di Gian Giorgio Trissino, autore che il maestro aveva fra i più cari dei moderni.

Nel 1714 Metastasio prese i voti minori per ottenere lo status clericale, senza il quale pareva impossibile intraprendere una carriera a Roma e nel 1718, dopo la morte del Gravina, che gli aveva lasciato in eredità una fortuna di 18.000 scudi nonché la sua biblioteca, venne accolto in Arcadia col nome pastorale di Artino Corasio, ove esordì leggendo un’elegia, La strada della gloria, in memoria del suo maestro. Segue allora un nuovo, abbastanza lungo soggiorno a Napoli, durante il quale egli si concede, questa volta contro il gusto graviniano, alla frequentazione di autori come Tasso e Marino, la cui “mollezza fantastica”, la “copia sonora” e il “colorito facile” (secondo quanto ha scritto il Carducci) si ritroverebbero, con un’evidenza più tardi attenuata, in alcuni già notevoli lavori di quegli anni, come l’Epitalamio scritto per le nozze di don Antonio Pignatelli, principe di Belmonte, con donna Anna Francesca Pinelli di Sangro, e per la stessa occasione scrisse una serenata, l’Endictione, che dedicò poi alla cognata della sposa, donna Mariana Pignatelli contessa d’Althan (1720). Su richiesta del viceré di Napoli, poi,  nel 1721 compose per il natalizio dell’imperatrice d’Austria l’azione teatrale Gli Orti Esperidi, a condizione che l’autore rimanesse anonimo. L’opera fu messa in musica da Nicola Porpora[3] e cantata da un allievo dello stesso, il castrato Farinelli[4], il quale fece uno spettacolare debutto e si legò al Metastasio con una calorosa amicizia fraterna tanto da chiamarlo “gemello caro” nelle sue numerose lettere al librettista.

Tuttavia questi anni sono, per Metastasio, oltre che di esercizio della poesia, anche anni di pratica forense e studi legali (in due anni aveva infatti speso tutta l’eredità del Gravina e si era dovuto impiegare nello studio di un avvocato), a liberarlo dai quali e a consentirgli una più libera attività creativa sarà, su questo principio degli anni venti, un nuovo caso fortunato: l’interprete principale de Gli Orti Esperidi, la celebre e ormai matura cantante Marianna Bulgarelli[5], detta la Romanina, la quale interpretava Venus nel dramma, non si dette pace sino a che non ebbe scoperto chi fosse l’anonimo autore. Per l’immediata simpatia nata tra i due, la Romanina (che morendo, lo lasciò a sua volta erede universale: eredità cui Metastasio volle tuttavia rinunciare in favore del vedovo) lo sottrasse dunque alla professione forense, lo fece istruire nella musica e lo stimolò a scrivere per lei la Didone abbandonata, che rappresentata a Napoli con grandissimo successo, segnò per il poeta l’inizio di un’intensa, lunga e fortunata attività di autore di drammi per musica. Infatti, sotto l’influenza della Romanina, tra il 1724 e il 1730 scrisse, oltre alla Didone abbandonata, Siroe re di Persia, Catone in Utica, Ezio, Alessandro nell’Indie, Semiramide riconosciuta e Artaserse. Questi drammi furono musicati dai principali compositori di quel tempo e furono rappresentati nelle più importanti città italiane.

Grazie alla fama acquisita, ricevette e accettò l’offerta per il posto di poeta di corte al teatro di Vienna, ufficio prestigiosissimo, compensato con uno stipendio annuo di tremila fiorini, cui Metastasio attenderà sino alla vecchiaia e – senza di fatto più muoversi dalla capitale asburgica – componendo, con attività ininterrotta, feste teatrali e oratori per le più varie solennità della corte, e ancora, s’intende, melodrammi, fra cui i più celebri L’Olimpiade (1733), La clemenza di Tito (1734), Attilio Regolo – quest’ultimo, come sembra, il più caro all’autore, composto nel 1740 ma rappresentato solo dieci anni più tardi.

È in ogni caso opinione acquisita che il periodo di più intensa e felice attività debba situarsi appunto nel primo decennio viennese. E si può ancora ricordare come, accanto a tali opere destinate alla funzione pubblica cui si è accennato, Metastasio venisse allora componendo anche testi rivolti, se non a una solitaria, “romantica” effusione del cuore, certo alla fruizione di un ambiente più ristretto. Sono i trentadue Sonetti e le sette Canzonette; inoltre le trentaquattro Cantate e le varie Rime. Diverse opinioni su temi di letteratura e di poetica furono affidate dallo scrittore ad alcune fra le migliaia Lettere inviate a corrispondenti talvolta di notevole rilievo letterario (Algarotti, Bettinelli, Goldoni, Monti ecc.). E a questo proposito va ricordato che, negli ultimi anni, egli lavorò ad un Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile e considerazioni su la medesima.

Metastasio morì nel 1782 e fu sepolto nella cripta della chiesa di San Michele a Vienna.

Le Lettere

Curiosamente, in un secolo che ne è colmo, Pietro Metastasio non ci ha lasciato nessuna memoria autobiografica. Ci ha lasciato invece un ricco epistolario che ci consente di fissare, oltre ai dati esterni abbastanza ovvi e acquisiti, qualche tratto più profondo e decisivo della sua personalità e della sua vicenda storica, certo assai ricche di significato.

L’impressione che si può trarre da questa raccolta di lettere – anche fermandosi ad una lettura sommaria – è quello di trovarsi davanti ad una vicenda vitale ed intellettuale che si pone sulla medesima lunghezza d’onda di quanto abbiamo già delineato in precedenza, e cioè a quel clima – largamente diffuso nella società colta dell’Europa – di una sorta di ordinata serena convinzione che un tempo nuovo e migliore del precedente sia sul punto di arrivare, e cioè la fiducia – nata all’indomani della pace di Utrecht – nell’avvento di un mondo nuovo, pacificato, sicuro, ragionevole, insomma – per dirla in breve – un mondo civile ed appagante.

L’esperienza del Metastasio, però, a differenza di quanto avviene ad esempio in Giannone, non riesce a cogliere non riesce a cogliere di quel tempo – per certi versi realmente felice – le inquietudini sotterranee ed enigmatiche, le richieste problematiche, le implicazioni di impegno civile e al limite di lotta; ma che soprattutto si arresta, fissata – certo anche a seguito del favore di una condizione privata del tutto speciale – su quel sogno di felicità umana, di equilibrato e razionale assetto delle cose, anche in anni, i successivi, in cui le circostanze di fatto, la prassi, lo avrebbero variamente smentito, o almeno avrebbero contribuito a trasferirlo in una prospettiva problematica e complessa, e fissata, come s’è detto, facendone in tal modo un mito e insieme il contenuto centrale, ed essenzialmente statico, di un’intera esistenza.

Sotto questa luce (che investe, per la verità, non certo solo la persona di Metastasio, ma un’ampia zona del mondo intellettuale che gli è contemporaneo) si potranno allora considerare, delle lettere, alcuni luoghi esemplari, come, del 1757, il ringraziamento al grandissimo amico Farinelli[6] – voce regina, celeberrimo evirato cantore – per un invio di tabacco, dove la gioia, splendidamente detta, per la «lussuriosa droga» si fa veramente a segno di quell’edonismo intenso e placato, candidamente non problematico, di quel sereno e fervido possesso della vita, e delle piacevoli cose della vita, che è sì proprio dell’umanità metastasiana, ma anche di certa società settecentesca. Di tal genere è la famosa lettera su giardino del Prater (1766), nella quale non si celebra solamente un luogo di «delizie», ma la stessa gradevolezza di queste delizie illuminatamente partecipate e generosamente distribuite, e – soprattutto – l’amabilità ragionevole del «nostro giovane ed adorabile imperatore, per il quale», appunto, «il più gran condimento dei piaceri è quello di poterli comunicare a tutti».

Ed ecco quindi che si manifesta nelle lettere anche il tema – fondamentale nella personalità del Nostro – del rapporto del poeta con i regnanti, esplicitato ora nei modi di una ammirazione connivente, ora di una «soggezione» piena ed attonita: un tema, questo, attorno al quale è certo possibile osservare quanto è stato detto sul principio di questo scritto, ma da cui traspare anche, evidentissima, l’assoluta fiducia in un assetto, un ordine generale del quale altro non è pensabile migliore, e dunque la dedizione totale, e autentica, a chi di tale assetto è garante ed esecutore. Per tali motivi, assai illuminanti risultano pure altre lettere, come quella al fratello del 3 luglio 1761, in cui Metastasio esprime il «sommo… dolore» di veder «regnar presentemente in tutta l’Europa […] uno spirito impetuoso di cabala e di partito, fomentato dall’abbondanza di quei felici ingegni che vorrebbero liberar l’umanità dal giogo della religione e dell’ubbidienza al proprio principe e da tutti quegli onesti doveri che sono i legami più solidi e più necessari della società»; o un’altra, al medesimo, in cui si sostiene, secondo del resto un motivo assai diffuso nella cultura diremo moderata di quegli anni, la bontà dei tempi presenti rispetto agli orrori e alle tenebre dei tempi passati.

Ed è notevole poi come tutto ciò trovi riscontro, nelle lettere di più specifica attinenza a temi artistici o letterari, nel compiacimento, cui si accennava, per le prove del giovane Monti, per certi aspetti così attardate e vicine a quella pratica armoniosamente celebrativa ch’era stata appunto propria del mondo metastasiano, e all’opposto nell’ostilità, manifestata a volte con una risolutezza insolita nel tono in genere urbano e misuratissimo dell’epistolario.

La poetica, la poesia e il melodramma

Come scrive giustamente il Binni, ciò che si deve chiarire sin dall’inizio è che «il Metastasio e la sua poesia vadano intesi nel loro accordo fondamentale con l’epoca arcadico‑razionalistica, sia nelle sue prospettive di prudente progresso e di ordine razionale e naturale confermato dalla fede in una provvidenza benefica in cielo e da una regolata e legale civiltà assolutistico‑paternalistica in terra (sicché il Metastasio fu poeta cortigiano per convinzione e sicurezza di una missione tutt’altro che spregevole), sia nella sua generale fiducia ottimistica che pur conosceva le pene e le miserie della condizione umana, ma le inquadrava in un generale trionfo del bene e della saggezza sia, infine, nella sua tensione ad una poesia che – pur ambiziosa di ammaestramento (quante “sentenze” e “massime” si possono ricavare specie dalle “ariette” dei melodrammi!) – mirava, con l’ausilio di una disciplina stilistica e di una esperienza teatrale tutt’altro che superficiali, a tradurre poeticamente, con un linguaggio nitido, semplice, elegante, fortemente comunicabile, gli ideali del tempo in opere contraddistinte da una singolare chiarezza razionalistica e da un naturale fervore di affetti, colti soprattutto nel loro diagramma di speranze e timori, di momenti drammatici e di sereno e ottimistico lieto fine»[7].

In pratica, semplificando il discorso, alla base della mentalità del Metastasio (come si evince dall’epistolario) e della sua poesia vi è quella sorta di candido abbandono a prospettive di ragionevolezza, di equilibrio, di tranquilla armonia, di misurato edonismo, che trovano un indubbio riscontro in tutta la sua opera poetica in cui – comunque la si percorra nella sua straordinaria vastità – si offre ancora oggi l’incanto – e certo non si potrebbe dire altrimenti – e la suggestione, nella stessa monotonia, di un universo di forme elegantemente aggraziate, sottratte all’urto e alle asperità del reale naturale, etico, storico, ma pure al reale rinvianti, di continuo, almeno per alcune sue zone trascelte (l’amor tenero, l’amicizia virile, certa moralità civile ecc.), secondo un gioco sottilissimo di ammicchi, trasparenze, ombreggiature, nel quale a pieno sembra esprimersi una ragione non profonda e non, per così dire, tragica, ma agile, duttile, sottile appunto, incline alla misura e compromissoria, ed esercitata in una varia e insieme epidermica esperienza del mondo.

Se, del resto come s’è già avuto modo di dire, i tratti della personalità del Metastasio trovano riscontro in talune caratteristiche linee di tendenza della società colta, tanto in Italia come in Europa, specie per gli anni successivi alla pace di Utrecht ma anche, più in genere, per tutto quel che potremmo definire il medio Settecento, ben si comprende, e non può comunque non apparire assai significativo e illuminante, lo straordinario e prolungato favore incontrato allora dall’opera di questo poeta, anche presso testimoni che oggi di per sé ci parrebbero piuttosto lontani da quest’ultimo per formazione e per ben altra complessità di prospettive intellettuali.

Insomma, Metastasio traduce in termini “programmatici” le diverse condizioni di una poesia cara al suo “gusto educato”, nella quale trova voce anche il gusto medio di una parte consistente della società dell’epoca: quella disposizione a una poesia variamente nutrita di verità psicologica, incline inoltre ad accogliere tensioni patetiche ma specialmente amoroso‑sentimentali, orientate comunque nel senso del “tenero”, del “soave”, del “toccante”; infine rigorosamente sottoposta al saldo controllo della ragione e, soprattutto, di un pensiero preoccupato di non valicare i limiti di un’equilibrata moderazione, che nelle invenzioni metastasiane aveva trovato – e ancora per qualche tempo avrebbe trovato – un riferimento esemplare e, appunto, inimitabile.

Tutto questo “gusto arcadico” traspare ampiamente non solo nelle Rime, nei trentadue Sonetti e nelle canzonette, già felicemente sperimentate nel Seicento dal Chiabrera, ma anche nella trentina di melodrammi (i suoi veri capolavori) che il Metastasio scrive nell’arco di circa un cinquantennio. Al perfezionamento di schema e di fusione tra poesia e musica nelle sue composizioni per il teatro, il Nostro lavorò con laboriosa sapienza e con ispirazione crescente per svincolare la tragedia dai ceppi imposti dalla tradizione aristotelica (le assurde unità di tempo e di luogo che pure s’era fino ad un certo punto sforzato di rispettare) e renderla più vicina ai suoi propositi e ai suoi ideali, anche se solo in parte saranno poi realizzati. Dalla composizione della Didone abbandonata, che già presenta un impulso spumeggiante ed intenso, un più forte scontro tra i personaggi più importanti nelle loro difformità, ma anche un’energia risoluta nella protagonista Didone, Metastasio – attraverso una lunga serie di opere che, con varia forza, rappresentano altrettante tappe nella riforma del melodramma – viene determinando e precisando un proprio linguaggio, un diverso concetto di catarsi – meno tragico e più melodrammatico, che lascia spazio agli esempi di nobile virtù, agli affetti più dolci e gentili e soprattutto all’amore – e nuovi espedienti tecnici, principalmente nel rapporto fra recitativo ed “aria”, che non è più un’aggiunta a sé stante, ma la risoluzione melodico espressiva del recitativo.

Tutto questo, come scrive Sapegno, non esclude però che egli dimostri «d’esser consapevole dei limiti che gli imponevano le esigenze del teatro quale s’era venuto concretamente organizzando ai suoi tempi: “Il contrasto del vizio e della virtù è ornamento impraticabile in questi drammi, perché nessuno della compagnia vuol rappresentare parte odiosa. Non posso valermi di più che di soli cinque personaggi… Il tempo della rappresentazione, il numero delle mutazioni di scena, delle arie e quasi de’ versi è limitato”. Alla radice del melodramma metastasiano sta infatti un problema tecnico, che appassionò profondamente gli uomini del Settecento, e cioè la necessità di raggiungere un compromesso fra le esigenze dello spettacolo, quale esso era inteso dal pubblico e preteso dagli attori e in certo senso determinato dall’invadenza crescente dell’elemento musicale, e la vecchia tenace aspirazione italiana di adeguare il melodramma alle ragioni del decoro poetico e della dottrina aristotelica della tragedia»[8].

Infatti, come s’è già detto altrove, tra la metà del XVII secolo e nel corso del XVIII, con la progressiva sostituzione dei teatri principeschi con quelli pubblici, il melodramma, da un punto di vista letterario, si uniforma ai gusti di un pubblico più vasto ma meno colto e raffinato, «la coreografia e la scenografia prendono il sopravvento; alle azioni semplici e lineari (sul tipo di quelle ch’eran piaciute al Rinuccini) succedono le azioni complicate e romanzesche, miste di elementi buffoneschi e comici, sotto l’nflusso del romanzo appunto e della commedia dell’arte; il virtuosismo dei cantanti, facendosi sempre più esigente e capriccioso quanto più intorno ad esso cresce il favore e l’entusiasmo delle folle, costringe gli autori ad accettare, per la struttura e la tecnica del libretto, quelle norme e quegli schemi fissi che meglio si prestano a mettere in rilievo le attitudini e le qualità dei singoli virtuosi»[9].

Già lo Zeno[10], suo predecessore alla corte imperiale di Vienna, aveva iniziato una riforma del melodramma per renderlo più sobrio, più ossequiente alle regole, con maggiore verosimiglianza nell’intreccio e dignità letteraria nel testo. Lo stesso Metastasio riconosceva allo Zeno svariati meriti: «quello di aver dimostrato con felice successo che il nostro melodramma e la ragione non sono enti incompatibili; quello di non essersi riputato esente dalle leggi del verisimile; quello di essersi difeso dalla contagione del pazzo e assurdo stile allor dominante; e quello finalmente d’aver liberato il coturno dalla comica scurrilità del socco, con la quale era in quel tempo miseramente confuso». Ed in effetti lo Zeno, ispirandosi alla tragedia francese, cercò di riportare il melodramma al senso dell’eroico e del tragico, ma l’azione drammatica è rigida e senza vita e l’invenzione fantastica è povera.

Anche in Metastasio il senso dell’eroico è fortissimo, ma egli lo concepisce in quelle forme stilizzate e liriche che gli offriva la tradizione (Ariosto, Tasso, Marino), per cui i motivi sentimentali e le esigenze melodiche scaturiscono dal nucleo più intimo della sua ispirazione poetica e, al contrario di quanto accade nello Zeno, non contrastano con i propositi teorici che provengono dall’intelletto. A tale proposito il De Sanctis scrisse: «Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che aveva già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l’architetto»[11].

Tutto questo traspare, anche se con risultati parziali, già in opere come l’Artaserse (1730) e il Demetrio (1731); ma laddove Metastasio riesce a raggiungere pienamente l’equilibrio tra la propria ispirazione lirica e le esigenze del decoro, mantenendosi nell’ambito di un sentimento comune, ma soffuso di grazia ed idealizzato, tralasciando ogni velleità retorica e ogni abbassamento comico, trovando la sua espressione più sicura e la sua perfezione tecnica, nascono allora i suoi grandi capolavori: l’Olimpiade e il Demofoonte (1733).

«Tutto il secolo XVIII» scrive il Carducci[12] «si accordò ad acclamare la divina Olimpiade dove la melica e la melopea italiana raggiunge certo una perfezione inarrivata e inarrivabile». E l’Olimpiade è veramente «l’opera più ammirevole del Metastasio (sempre nei limiti di una poesia gracile e sospesa fra realtà e sogno), il frutto più maturo del lungo lavoro del Metastasio nello sviluppo degli affetti e delle situazioni patetiche, nella loro trama di oscillazioni fra speranze, timori e finale rasserenamento, a cui nell’Olimpiade serve la trama favolosa delle vicende e peripezie imperniate sull’amore di Megacle per Aristea, figlia del re Clistene, sul contrasto fra quest’amore ricambiato e l’amore che per Licida ha la pastorella Argene e quello che per Aristea nutre Licida, amico fraterno di Megacle, il quale, per tale profonda amicizia, accetta di sostituirsi all’amico nelle gare olimpiche (da cui deriva il titolo dell’opera) per conquistargli la mano di Aristea. Amore, amicizia, generoso altruismo si incontrano e si complicano fra di loro, provocando dolore e “palpiti” dei cuori giovanili presi e sollecitati in questa complicata vicenda, che tocca il limite del drammatico (quando Licida, che ha compreso parzialmente le conseguenze del suo inutile amore e crede morto il disperato Megacle, osa rivolgere il suo pugnale contro il re Clistene) per poi rapidamente eluderlo nel lieto fine: quando Argene si rivela per principessa e promessa sposa di Licida e questi è identificato come figlio di Clistene, e cosí viene perdonato dal padre, mentre si celebrano le nozze fra Aristea e Megacle, rivelatosi vero vincitore delle gare olimpiche.

Cosí riassunta, la trama appare estremamente improbabile e assurda, ma essa va considerata, come dicevo, nella sua funzione di calcolato disegno, i cui scatti e svolgimenti (precisi come quelli di un congegno ad orologeria) permettono lo svolgersi della trama poetica e delle sue situazioni patetiche, lo sgorgo limpido e armonico, e insieme vibrante e commosso, della vera materia poetica dell’opera: quelle vicende del “cuore” e degli affetti, dell’amore, dell’amicizia, del sentimento paterno e filiale che tendono la vita affettiva dei personaggi (tutti sostanzialmente elevati e puri) nel loro urto con un destino volubile e ostile che la sollecita alle sue vibrazioni più affettuose e dolorose, risolte in una espressione melodica e limpida (si pensi soprattutto alla esemplare scena, riportata nell’antologia, dell’addio di Megacle ad Aristea e della sua suprema e reticente preghiera all’ignaro e turbato Licida nelle sue ultime parole ad Aristea svenuta), e che poi la rasserena e la placa nell’esito provvidenziale‑ottimistico del lieto fine. Sottratto a paragoni rischiosi con opere tragiche ricche di forti passioni, di solidi personaggi, di salde storie drammatiche, e riletto invece nella sua vera prospettiva melodrammatica e patetica, questo piccolo capolavoro della poesia metastasiana e arcadica rivela la sua delicata e sottile bellezza, la sua fusione fra trama di vicenda e tessuto poetico‑affettivo, la sua perfetta dosatura di ogni voce, la sua coerenza fra recitativi e arie, la sua qualità di linguaggio, povero e limitato se paragonato alla ricchezza e forza di ben altri tipi di poesia, ma in sé perfettamente chiaro e limpido, elegante e comunicabile, lieto e struggente, malinconico e fiducioso, come il patetico mondo affettivo che vi esprime i suoi sentimenti, le sue perplessità, la sua candida generosità e la sua saggezza gentile, istintiva e razionalmente educata.

In una direzione analoga, ma con un di più di tensione patetico­‑drammatica che arricchisce e sforza la misura armonica dell’Olimpiade, si profila il Demofoonte, in cui il Metastasio volle complicare il diagramma melodrammatico con una specie di doppio lieto fine, intervallato da una più forte ondata di sospensione drammatica, approfondì con una più matura e pensosa nota di umanità e di passione coniugale (quasi più moderna e borghese, anche se la scena è sempre una corte mitica e i personaggi sono regali e nobili) la vita sentimentale dei due protagonisti, Timante e Dircea, segretamente sposi e minacciati prima da una legge mitica che destinava Dircea alla verginità, pena la morte, e poi dalla rivelazione fallace di un loro legame fraterno (donde l’insorgere dell’orribile peso di un carattere incestuoso del loro amore invincibile), mentre il poeta introdusse felicemente anche una variante più ingenua e quasi lievemente ironica della situazione amorosa, nella delineazione fresca e ariosa dell’amore (anch’esso contrastato e poi felicemente risolto) fra i giovanissimi Cherino e Creusa.

Ciò che conferma, a ben vedere, come il Metastasio poeticamente interpretasse gli ideali più sinceri della sua epoca nella sua più sincera attenzione al regno del patetico e nella sua fiducia ottimistica nella coincidenza di natura e ragione e nella loro convalida da parte di una forza provvidenziale sempre finalmente vittoriosa e giusta. Dal dramma nasce l’idillio, dalle pene sgorga il piacere, anche se la prudenza metastasiana e arcadica lo presenterà sempre come virtuoso e legittimato dalla ragione e dall’ordine provvidenziale delle cose e non certo come trionfo di passioni disordinate e ribelli»[13].

Nelle opere successive del Nostro non vengono più raggiunte queste alte espressioni di poesia, ma si svolge anzi un lungo ed inesorabile declino, pur fecondo di opere, che si strutturano però sopra tentativi ambiziosi di riservare uno spazio maggiore al tragico e all’eroico. In accordo con il suo compito viennese di poeta cesareo e quindi di educatore di principi, di nobili e di sudditi, nonché di sostegno ai regnanti, egli si dispose a rappresentare alti ideali di fedeltà cavalleresca, di giustizia, di eroismo, di magnanimità. Ritornò, insomma, agli insegnamenti del Gravina, il suo antico maestro, riportando sulla scena i famosi personaggi dell’antica virtù e della storia classica. Mai, tuttavia, venne a mancargli il sostegno di quella sua profonda ed estremamente raffinata educazione stilistica, che lo rese (e lo mantenne) il poeta più amato e stimato di tutto il Settecento, di cui d’altronde egli seppe così bene esprimere ed in modo tanto intenso la delicata sensibilità e la misurata tenerezza del cuore.

***NOTE AL TESTO***

[1] Dal greco metístemi: trapasso, allusione al suo cognome

[2] Gregorio Caloprese – filosofo, medico e matematico – nacque a Scalea nel 1654, da Carlo e da Lucrezia Gravina, che si sposarono a Roggiano nel 1653. I suoi genitori si resero presto conto dell’intelligenza del loro figliolo e lo avviarono a studiare a Napoli sotto la guida del letterato Giuseppe Porcella. Gregorio si laureò successivamente nel campo a lui più congeniale della medicina. Rimase sempre in rapporto da Scalea, dove si era ritirato, con i centri intellettuali di Napoli e Roma. A Scalea fondò una scuola che ebbe una certa rinomanza e partecipò all’attività culturale dell’Accademia di Medinaceli traendone ispirazione per i suoi interessi antiautoritari e antidogmatici scientifici e filosofici che lo fecero schierare dalla parte di coloro che subordinavano l’indagine naturalistica al metodo razionale di tipo cartesiano. Morì a Scalea nel 1715.

[3] Nicola Antonio Giacinto Porpora (Napoli, 1686 – Napoli, 1768), oltre che maestro di canto, fu uno dei più celebri compositori italiani della sua epoca, soprattutto per quanto riguarda l’ambito operistico.

[4] Pseudonimo di Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi (Andria, 1705 – Bologna, 1782), allievo del Porpora, è considerato il più famoso cantante lirico castrato della storia.

[5] Marianna Benti Bulgarelli (Roma, 1684 – Roma, 1734), soprano italiano, debuttò a Roma verso il 1703. Nel 1712 fu a Genova a lavorare per il Teatro Sant’Agostino e tra il 1714 e il 1715 cantò per il Teatro San Bartolomeo di Napoli; in ambedue le città ebbe molto successo. Dal 1716 al 1718 fu la volta del Teatro San Giovanni Grisostomo di Venezia. Tornata a Napoli nel 1719, cantò come prima donna ne Gli orti esperidi, scritta da Pietro Metastasio. Nel 1724, sempre al San Bartolomeo, cantò nella Didone abbandonata, scritta dal suo giovane protetto e musicata da Domenico Sarro che, secondo molti critici, fu ispirata proprio da lei. Successivamente, nel 1725, La Romanina si esibì al Teatro San Cassiano di Venezia e nel 1726 ancora una volta a Napoli. Ritiratasi dai palcoscenici, si stabilì definitivamente a Roma nel 1728. Durante il soggiorno viennese di Metastasio, decise di recarsi da lui, però morì lungo il viaggio.

[6] Pseudonimo di Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi (Andria, 1705 – Bologna, 1782), che è considerato ancor oggi il più grande cantante lirico castrato della storia. La castrazione è un’operazione chirurgica che, se effettuata prima dello sviluppo puberale, consente ai maschi di poter conservare la propria voce di soprano o contralto. Fu probabilmente il fratello maggiore Riccardo (compositore) a volere per Carlo la castrazione, eseguita poco dopo la morte del padre, avvenuta nel 1717. A Napoli studiò canto con Nicola Porpora che curò l’affinamento del suo naturale talento di mezzosopranista molto esteso, sia verso il basso sia verso l’alto. Il suo debutto avvenne a Napoli, nel 1720, nella serenata “Angelica e Medoro”, al fianco di Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, in una soirée in onore dell’Imperatrice d’Austria. La sua esibizione riscosse un ottimo successo e quelle successive gli valsero una crescente rapida notorietà che lo portarono ben presto a calcare i più prestigiosi palcoscenici di tutta Europa. Fu famoso anche per i suoi “duelli” tra cantanti, adorati dal pubblico, nei quali primeggiava per la purezza di timbro ed estensione di scala, per la nitidezza di trillo e l’inventiva.

[7] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 29.

[8] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 380.

[9] Sapegno Natalino, ibidem, pag. 310.

[10] Apostolo Zeno (Venezia, 1668 – Venezia, 1750), appartenente alla nobiltà veneziana, fu educato presso i padri Somaschi, entrò in contatto con la letteratura legata alla nascente Arcadia e figurò nel 1691 tra i fondatori dell’Accademia degli Animosi. Nel 1695 compose il primo libretto d’opera, Gl’inganni felici, che ottenne un grande successo rendendolo librettista alla moda. Nel 1696 iniziò poi l’attività di giornalista letterario nella Galleria di Minerva di Girolamo Albrizzi, e nel 1710 insieme al fratello Pier Caterino Zeno, a Scipione Maffei e ad Antonio Vallisneri fondò il Giornale de’ letterati d’Italia. Nel 1718 venne chiamato all’incarico di poeta cesareo presso la corte imperiale viennese di Carlo VI. A Vienna rimase fino al 1729, quando gli subentrò Pietro Metastasio. Tornato a Venezia, si dedicò soprattutto a opere di erudizione e alla numismatica.

[11] De Sanctis Franceso, Storia della letteratura italiana, a cura di Maria Teresa Lanza, introduzione di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano, 1970, pag. 768.

[12] Carducci Giosuè, in Opere di Giosuè Carducci, XIX, Zanichelli, Bologna, 1909, pag. 82.

[13] Binni Walter, ibidem, pag. 31-32.


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