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Marco Michelini | 9 Ottobre 2010

atto unico liberamente tratto dall’omonimo dialogo di Platone


Personaggi

  

Socrate                                 filosofo greco

Un narratore

  


 

La scena si svolge in Atene nell’anno 399 A.C.

Al levarsi del sipario sono in scena il Narratore e Socrate, seduto in disparte.

 

NARRATORE. Ad Atene, nell’anno 399 A.C., fu presentata all’arconte re, contro il filosofo Socrate, un’accusa di eresia, cioè di mancato ossequio alla religione di stato. L’accusa così diceva: “Io Melèto, figlio di Melèto, Pitteo, scrivo e giuro la seguente accusa contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo di Alòpece. Socrate è colpevole di non riconoscere gli dei che lo stato riconosce, e di introdurre altri e nuovi culti; inoltre è colpevole di corrompere la gioventù. Per tutti questi reati, la pena che richiedo è la morte”. Ma non era solo Melèto ad accusare Socrate: c’erano con lui altri due compagni, Anito e Licone, i quali avevano come lui eguale diritto di parola nello svolgimento del processo. Melèto era, per così dire, l’accusatore ufficiale, quello che aveva presentato e firmato l’accusa e che, se questa non era provata, doveva assumerne ogni conseguente responsabilità. E non è detto che l’accusatore ufficiale dovesse essere il più autorevole, o il più abile e temibile. Infatti, in questo processo contro Socrate, colui che lungamente ispirò l’accusa, che abilmente la preparò nei diversi circoli cittadini, che autorevolmente la sostenne con la grande importanza del suo nome nella discussione del tribunale, non fu certo Melèto,  o tanto meno Licone, bensì Anito. Costui, un ricco mercante di pelli non più giovanissimo, era, nell’appena restaurato regime democratico, uno dei cittadini più influenti ed ascoltati; ed era anche uno tra i più miti, benché avesse sofferto dal governo dei Trenta, con l’esilio e la confisca dei beni, danni considerevolissimi. E forse fu proprio questa sua riconosciuta mitezza che meglio persuase i giudici e più nocque a Socrate nel processo, che si svolse trenta giorni dopo che l’accusa era stata presentata. Da Diogene Laerzio e da Platone stesso, sappiamo che i giudici incaricati erano circa cinquecento e che, oltre ad essi, erano presenti molto pubblico, nonché amici e testimoni delle due parti. Presiedeva l’arconte re, che già aveva, nel mese precedente, esaminata la causa ed eseguita l’istruttoria, assistito dal cancelliere che recava in un cofano sigillato gli atti del processo. Si lessero codesti atti, cioè le dichiarazioni giurate delle due parti e le testimonianze relative. Quindi salì primo sulla tribuna Melèto, e dopo di lui Anito e Licone. Ognuno di essi presentò testimoni, sostenendo naturalmente l’accusa, e insieme la conseguenza dell’accusa, cioè la proposta pena di morte. Infine, dopo costoro, parlò Socrate.

Il narratore esce.

SOCRATE (alzandosi). Io non so, cittadini di Atene, quale impressione vi abbiano fatto i discorsi dei miei accusatori; certo è che i loro accenti furono così persuasivi che io non riconoscevo più me stesso. Eppure, mi sia concesso dirlo, costoro non hanno detto una sola verità. Ma tra le molte bugie che vi hanno regalato, una massimamente mi fece impressione, e cioè questa: il dire che voi dovevate stare bene attenti a non lasciarvi trarre in inganno da me, perché sono un abilissimo oratore. E che non abbiano provato vergogna al pensiero che io subito li avrei smentiti col fatto, dimostrando che sono tutt’altro che un abile oratore, ebbene questo – cittadini di Atene – questo mi parve il sommo della svergognatezza. A meno che essi non chiamino buon oratore colui che dice la verità: poiché se intendono questo, allora certo, io sono un ottimo oratore e loro dei poveri balbuzienti.

breve pausa

Costoro, lo ripeto, poco o nulla di vero hanno detto; da me, invece, voi non udrete altro che la verità. Né udrete da me, come da loro, discorsi adorni di belle frasi o parole, bensì un parlare semplice, alla buona, come già tante volte lo avete ascoltato nei luoghi più affollati dell’Agora, tra le grida dei cambiavalute e degli strozzini. Del resto, o cittadini, non sarebbe neppure conveniente a questa mia età, vecchio come sono di compiuti anni settanta, ch’io venissi qua a modellarvi di belle frasi come potrebbe fare un oratore giovinetto. Inoltre, questa è la prima volta ch’io salgo i gradini di un tribunale, e quindi sono davvero straniero all’eloquenza di questi luoghi. Perciò vi prego, ateniesi, e mi pare ragionevole preghiera, di non badare al modo del mio parlare; ma di badare soltanto a questo: se dico cose giuste o ingiuste; perché questo è il dovere di chi giudica, così come dovere di chi parla è dire la verità.

breve pausa

Innanzi tutto, o cittadini, è opportuno ch’io mi difenda dalla falsità delle prime accuse che mi furono fatte dai miei vecchi nemici, e solo successivamente dalle accuse di Melèto. Perché di accusatori ve ne è stati parecchi davanti a voi, già da molti e molti anni; e costoro io li temo assai più che Anito ed i suoi amici, poiché avendo in custodia la più parte di voi per educarvi, quando ancora eravate fanciulli, cercarono di persuadervi che io speculo sulle cose celesti, che investigo tutti i segreti di sotterra, che faccio apparire come più forti le ragioni più deboli. Questa è l’accusa a cui Melèto si è appigliato per intentarmi questo processo, e che i meno giovani di voi hanno già vista rappresentata in una commedia di Aristofane, dove si parla di un certo Socrate che si fa menare qua e là sulla scena, e va dicendo che passeggia sulle nuvole, e ciancia di un’infinità di altre sciocchezze, di cui io non mi intendo e non mi occupo assolutamente. E di questo io chiamo a testimoni quelli tra voi, e sono tanti, che mi hanno sentito parlare in pubblico.

breve pausa

Ciò premesso, mi rendo conto che qualcuno potrebbe alzarsi e dire: “Ma allora, Socrate, da che derivano queste calunnie? Se davvero non fai niente di straordinario, niente di diverso da quello che fan tutti, perché sono state messe in giro tante dicerie sul tuo conto? Spiegaci, dunque, perché vogliamo farci di te un’opinione ragionata”. Chi dice così, dice bene. Ed io mi proverò a spiegare cos’è che dette origine a tante calunnie contro di me. Avete tutti conosciuto Cherefonte. Egli fu mio compagno fin dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e sapete anche che uomo era, e come fosse risoluto a qualunque cosa egli si accingesse. Orbene, un giorno Cherefonte andò a Delfi ed osò domandare all’oracolo se c’era al mondo qualcuno più sapiente di me. E la Pitia rispose che no, che più sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo può dare testimonianza il fratello del mio amico, che è qui, poiché – come sapete – Cherefonte è morto. Ma ora fate bene attenzione perché proprio di qui è nata la calunnia contro di me. Infatti, udita la risposta dell’oracolo, io cominciai a pensare che cosa avesse voluto dire il nume, a che cosa alludesse, perché certo io non ho coscienza d’esser sapiente né poco né molto. Che cosa dunque voleva dire il dio? Per lungo tempo rimasi in questa incertezza, finché, assai contro voglia, decisi di venire a capo del dilemma. Per questo mi recai da uno di quei politici che hanno fama di essere sapienti, disposto di buon grado a riconoscere che c’era al mondo qualcuno più sapiente di me, e ad ammettere, sia pure con pena, che il dio aveva sbagliato. Ebbene, mentre stavo esaminando costui, non tardai a scoprire che quel brav’uomo, pur dando a vedere a molti altri, e soprattutto a se stesso, di essere un sapiente, in realtà non lo era affatto. E, andandomene via, dovetti concludere che io ero più sapiente di quell’uomo almeno per questa piccola cosa: cioè che sapevo di non sapere. Allora me ne andai da un altro notabile di partito, che aveva fama di essere assai più sapiente di quello; ma trovai la stessa ignoranza e la stessa presunzione. Sentivo, con dolore e spavento, crescere attorno a me l’ostilità di tutti, ma continuai ad interrogare la gente per persuadermi che la parola dell’oracolo era davvero inconfutabile. Mi recai perciò da coloro che scrivono tragedie e ditirambi, e prendendo in mano le loro poesie domandavo cosa volessero dire. Ebbene, quei poeti, guardandomi non senza sorpresa, tentarono di darmi qualche giustificazione dei loro versi, ma era chiaro che essi ne sapevano meno dei loro studiosi e ammiratori. E così dovetti concludere che i poeti compongon versi non già per alcuna loro sapienza, ma per una loro naturale inclinazione. Ovviamente, ciò non diede alcun contributo alla soluzione del problema, ma fece nascere sul mio conto nuove insinuazioni e sospetti: la moneta con cui di solito gli artisti ripagano le curiosità dei filosofi. Alla fine mi rivolsi agli artigiani, e mi resi conto che essi, effettivamente, sapevano cose che io ignoravo. Ma notai anche che avevano lo stesso difetto degli altri, e che ognuno di essi, per il solo fatto di saper esercitare bene la propria arte, presumeva di essere sapientissimo anche in altre cose. Che cosa significavano, dunque, le oscure parole dell’oracolo? Che unicamente sapiente è il dio e che il più sapiente tra gli uomini è colui che riconosce, come Socrate, che la sua sapienza è nulla.

breve pausa

Ma ora basta. Delle colpe di cui mi accusarono in passato questa difesa è sufficiente. Ora proverò a difendermi da Melèto. Da capo, dunque, e prendiamo in esame l’atto d’accusa di costui. “Socrate” dice “è reo di corrompere volontariamente i giovani, di non riconoscere gli dei che la città riconosce e di praticare culti religiosi nuovi e diversi”. Questa è l’accusa. Esaminiamola punto per punto. Ma prima lasciate che io denunzi costui. Il colpevole è lui, perché si prende gioco di cose serie e trascina uomini in tribunale, dando a credere ch’egli si occupi di cose delle quali, in realtà, non si è occupato mai. E tutto questo io cercherò di dimostrarvelo.

breve pausa

Secondo quanto sostiene Melèto, tutti gli Ateniesi, all’infuori di me, sono capaci di educare i giovani e li fanno migliori. Bene! C’è grande abbondanza di buoni educatori! Ma ditemi un po’, cittadini di Atene: vi pare che sia così anche per i cavalli? E cioè che siano tutti gli uomini a farli migliori e uno soltanto quello che li guasta? Oppure è tutto il contrario: e cioè uno soltanto è capace di farli migliori – o quanto meno quei pochi che si intendono di cavalli – mentre i più, se hanno a che fare con i cavalli, li guastano? Eh? Ma certo che è così; ed allo stesso modo è per tutti gli altri esseri viventi, qualunque cosa Melèto ed Anito possano dire. Che gran fortuna sarebbe per i giovani, se fosse vero che uno soltanto li guasta e che tutti gli altri li educano e li migliorano! Ma ditemi ancora, cittadini di Atene: è  meglio vivere tra buone persone o tra persone malvagie? Se è vero che i malvagi fanno sempre del male a coloro che li avvicinano ed i buoni del bene, non credo esita uomo al mondo che preferisca vivere tra i malvagi e ricevere del male da coloro che frequenta, anziché del bene. Per cui, sarei davvero un bello stupido se mi adoperassi per rendere malvagio qualcuno di quelli che mi stanno attorno, poiché anch’io correrei il rischio di ricevere del male da costui. E come se non bastasse tutto questo io lo farei volontariamente?

ride forte

Ma di questo, cittadini, io non posso persuadermi; né credo che potrebbe persuadersene qualcun altro tra voi. Infatti, o io i giovani non li corrompo, oppure, se li corrompo, non lo faccio volontariamente; e Melèto, nell’un caso e nell’altro, dice il falso. Inoltre, se li corrompo involontariamente, per colpe di questo genere la legge non vuole che si trascini qua alcuno, bensì che lo si prenda da parte e che lo si istruisca. Perché è chiaro che, quando avrò imparato, quello che faccio ora involontariamente non lo farò più. Ad ogni modo, Melèto sostiene che io corrompo i giovani insegnando loro che non esistono dei e dicendo, a differenza di tutti gli altri uomini, che persino il sole e la luna non sono dei, essendo l’uno di pietra e l’altra di terra.

ride forte

Ma cosa crede, Melèto, di accusare Anassagora? E reputa voi così ingenui da non sapere che sono i suoi libri ad essere pieni di queste dottrine? E perché poi i giovani dovrebbero venire ad impararle da me queste stupidaggini, quando per una dramma – a dir molto – potrebbero comperarsele da soli e ridersi di Socrate, se le spacciasse per roba sua?!  

breve pausa

In verità, cittadini di Atene, costui mi sembra assai insolente e petulante; e si mostra in contraddizione con la sua stessa accusa: cosa, questa, che non esiterò a dimostrarvi. Rispondi, Melèto. Vi può essere qualcuno al mondo che crede esistano cose attinenti ai cavalli, ma che non esistano cavalli? Che esistano suonate di flauto, ma non suonatori di flauto? Che esistano cose demoniache, ma non dèmoni? Certo che no. Ebbene, Melèto, nel suo atto d’accusa, ha giurato che io credo a cose demoniache e che le insegno; ma se io credo a cose demoniache, devo per forza credere che ci siano anche dei dèmoni. Non è così?! E allora, com’è possibile che io, pur ritenendo che non ci siano dei, creda viceversa che ci siano dei dèmoni? Se questi dèmoni sono figlioli degli dei, siano pure figlioli bastardi, generati da ninfe o da altre madri, quale uomo potrebbe mai dire che esistono figli di dei, ma che gli dei non esistono? Sarebbe come dire che i muli sono figli di cavalle e di asini, ma che le cavalle e gli asini non esistono. Davvero una bella stramberia!

breve pausa

Ma ora basta, cittadini di Atene. Non voglio sprecare altro tempo per difendermi da Melèto, perché se qualche cosa mi deve perdere, non saranno certo le parole di Melèto o di Anito, ma l’odio e le calunnie della gente.

pausa tenuta

A questo punto, però, qualcuno potrebbe dirmi: “Ma come, Socrate, tu sapevi tutto questo e ti sei messo ad esercitare un ufficio per il quale, ora, corri il pericolo di morire?”. A costui io potrei ragionevolmente rispondere che l’uomo dabbene non deve tenere conto della morte, ma del suo operato; deve essere onesto e valoroso, non vile e malvagio. E se così non fosse, sarebbe stato stolto anche Achille, che preferì morire anziché rinunciare a quello che riteneva il suo dovere. Ciascuno, insomma, deve rimanere sempre nel luogo che reputa più onorevole per se stesso, o in quello che gli è stato assegnato da chi comanda; e qui sfidare i pericoli e la morte, senza preoccuparsi d’altro male che non sia la viltà o la vergogna. Quindi, anche se voi mi assolverete da questa accusa e mi lascerete andare libero, io continuerò a fare ciò che ho sempre fatto, poiché questo è il volere del dio, che mi scelse per stimolarvi e rimproverarvi; cosa – questa – che io ho fatto con tutti e sempre, trascurando il mio interesse personale e senza riceverne alcun compenso, come può testimoniarvi la mia povertà.

breve pausa

Mi si fa notare anche che io vado predicando per le strade, dando consigli ed immischiandomi negli affari degli altri; Ma che, se si tratta di assumere una qualsiasi responsabilità pubblica, me ne manca il coraggio. E’ una vecchia storia di cui vi ho già parlato più volte e che risale alla mia infanzia, quando cominciai a sentire una sorta di voce interiore che non mi suggerisce mai un’azione, ma che, quando occorre, mi dice: “Bada, Socrate, questo non si deve fare”. Ed è proprio questa voce che mi ha sempre impedito di partecipare alla politica dello stato. Soltanto una volta, disobbedendo alla voce, ho esercitato una funzione pubblica, cioè quando feci parte del Consiglio, giacché il turno toccava alla tribù Antiochide cui io appartengo. Era giusto il momento in cui volevate processare in massa i comandanti navali vittoriosi alle Arginuse, per non aver soccorso i naufraghi e raccolto i corpi degli annegati. Allora io, unico dei Pritani, mi opposi a quel giudizio e votai contro, affinché non faceste niente di illegale. E c’erano già i soliti oratori pronti a sospendermi dall’ufficio e a trascinarmi in carcere; e voi li incitavate. Ma io pensai che era mio dovere tenermi dalla parte del diritto e della legge, anziché rimanere con voi e deliberare l’ingiusto per paura del carcere e della morte. Per tutta la vita, sia in pubblico che in privato, io ho sempre difeso la giustizia, senza subire imposizioni da alcuno, neppure da coloro che i calunniatori chiamano i miei discepoli. Ma quali discepoli? Io non sono mai stato maestro di nessuno. Lascio che chiunque, povero o ricco che sia, conversi con me, mi interroghi e mi risponda; e non merito di certo lode, se costui diventa un uomo dabbene, né merito biasimo, se accade il contrario. Comunque, se con il mio conversare questi giovani io li ho davvero corrotti, perché non vengono qui a testimoniare contro di me? Non dico i giovani stessi, ma i loro parenti o i loro amici. Ve ne sono molti anche qui, in tribunale, io li vedo: prima di tutti Critone, mio coetaneo, con il figliolo Critobùlo; e poi c’è Lisania di Sfetto, con il figlio Eschine; e ancora là vedo Antifonte di Cefisia, padre di Epigene; e poi Nicostrato, figlio di Teozòtide, Paralio, figlio di Demòdoco, e il figlio di Aristone, Adimanto, con il fratello Platone. Perché Melèto non ha presentato qualcuno di costoro come testimone delle sue accuse? Ma perché proprio i parenti di quei giovani si sono schierati dalla mia parte e mi difendono, giacché sanno che Melèto mente.

pausa tenuta

Ma ora concludo, cittadini di Atene, anche perché vedo che la clessidra indica che il tempo a mia disposizione è quasi terminato. Alle ragioni addotte in mia difesa non voglio aggiungere altro, né cercherò di intenerirvi portando qui, come è costume, i miei figli o i miei parenti. Io non cercherò la vostra pietà; e questo non già per orgoglio, ma per rispetto di voi e di me stesso. Perché il giudice ha giurato di fare giustizia secondo le leggi, non di fare grazia a chi gli pare. E se io tentassi, con le mie preghiere, di indurvi a violare questo giuramento, allora sarei veramente empio e veramente colpevole dell’accusa che mi è stata fatta. Perciò, soltanto a voi ed al dio io mi affido, affinché il giudizio sia migliore per voi e per me.

Socrate si siede in disparte. Rientra il Narratore.

NARRATORE. A, questo punto, terminata la difesa di Socrate, i giudici si riunirono non già per stabilire la pena, cosa che sarebbe avvenuta in seguito, ma per dichiarare se l’accusato fosse o meno colpevole. La votazione fu tormentata. Socrate fu dichiarato colpevole con 280 voti contro 220 favorevoli all’assoluzione. La pena rimaneva ancora quella proposta da Melèto: la morte. Tuttavia il condannato aveva diritto di replica per proporre una pena meno grave, quale – ad esempio – l’esilio.

Il Narratore esce.

SOCRATE (c.s.). Mi avete condannato, ma non me ne rammarico. Vi dirò, in confidenza, che me lo aspettavo. Se mai, mi stupisce il numero dei voti favorevoli e contrari. Non credevo che lo scarto sarebbe stato così piccolo. ero preparato ad essere condannato da una maggioranza molto più sostanziosa. E invece, se so ancora fare i conti, uno spostamento di trenta voti sarebbe bastato per mandarmi assolto. Peccato, ci facciamo sempre più importanti di quello che siamo. Ma ora c’è da stabilire la pena. Melèto, lo sapete, chiede la morte; e quale pena dovrò chiedere io? Naturalmente quella che merito. E quale? Quale pena merito di soffrire, cittadini, io che nella vita, rinunciando ad ogni ambizione, trascurando ogni interesse privato, non scelsi altra occupazione che il rendere singolarmente, a ciascuno di voi, il servizio più grande, convincendolo a non occuparsi dei suoi affari, ma ad occuparsi della propria anima? Dite, dunque, quale pena merito di patire? Non una pena, cittadini di Atene, ma un premio. E se ho da chiedere il premio che mi spetta, io domando di essere alloggiato e nutrito nel Pritaneo a spese dello Stato. Ma badate, non dico questo – come voi potreste pensare – per un sentimento di orgoglio dispettoso, ma solo perché non avendo mai fatto ingiuria ad alcuno, non voglio neppure fare ingiuria a me stesso dichiarandomi meritevole di una qualsiasi pena. E poi, quale pena? Il carcere? Una multa? O forse l’esilio? Lo so, lo so che è proprio l’esilio che vorreste sentirmi chiedere, e che tutta questa rappresentazione tra farsa e tragedia  è stata montata solo con quello scopo. Ma credete davvero che io sia tanto accecato dalla voglia di vivere, da non rendermi conto che, se non mi sopportano i miei stessi concittadini, ancora meno mi sopporterebbero dei forestieri? Perché – io lo so bene – anche in esilio non cambierei mai vita, poiché questo significherebbe disobbedire al volere del dio.

breve pausa

Ma veniamo ad argomenti più pratici. Se fossi ricco, non avrei scrupolo a pagare una multa: la cosa moralmente non mi danneggia. Ma io non ho denaro. Potrei pagare solo una mina d’argento, ch’è tutto quello che possiedo. E dunque, mi assegnerò una multa di una mina d’argento. Ma poiché numerosi miei amici insistono affinché io vi paghi una cifra maggiore, cederò alle loro richieste, e mi multerò di trenta mine d’argento, delle quali si fanno garanti Platone, Critone, Critobùlo e Apollodoro che – come sapete – sono persone degne di fede.

Socrate torna a sedersi in disparte. Rientra il Narratore.

NARRATORE. Se Socrate avesse minimamente ceduto al naturale istinto umano di salvezza, non avrebbe certo pronunciato un simile discorso che irritò profondamente i giudici, i quali, dovendo scegliere tra la pena proposta dal condannato e quella proposta dall’accusatore, scelsero la seconda. Diogene Laerzio ci dice che Socrate fu condannato a morte con 360 voti contro 140, cioè con 80 voti in più di quelli che lo avevano giudicato colpevole. Con ogni probabilità, quando venne letta la sentenza di morte, Socrate aveva già lasciato il banco degli accusati ed era sceso in mezzo ai suoi amici. Ma Platone immagina che il vecchio filosofo, mentre i giudici svolgevano le necessarie pratiche di trascrizione del processo e della sentenza, prendesse ancora la parola rivolgendosi tanto a coloro che lo avevano condannato quanto a quelli che lo avevano difeso.

Il Narratore esce.

SOCRATE (c.s.). Avete votato la mia morte, e con quanta precipitazione! Ma un gran che di tempo, data la mia tarda età, non avete certo guadagnato. Se aveste saputo attendere, la natura stessa vi avrebbe dato la soddisfazione che cercate, e vi sareste risparmiati di macchiarvi del sangue di un innocente. Questo io non lo dico a tutti voi, ma a coloro che hanno votato la mia morte. E a questi stessi dico un’altra cosa ancora: io avrei potuto difendermi in ben altra maniera e adoperare qualcuno dei tanti mezzi consueti per sfuggire alla condanna. Anche qui, come in battaglia, scampare alla morte non è cosa difficile per chi è vile. Ma la viltà e l’infamia sono – a mio avviso – assai peggiori della morte: questa io affronto ora; quelle dovrete affrontare e subire voi per l’avvenire. A ciascuno la sua pena. Voi resterete gli assassini di Socrate, io un innocente ingiustamente condannato; ed in tal modo credo che la misura sia equa per tutti. A voi, invece, che avete votato la mia assoluzione, io voglio dire una cosa che potrà anche apparire straordinaria. Tante volte la mia voce interiore mi ha impedito di fare questo o quello; ma oggi s’è fatta mai sentire.  E questo io credo sia un segno evidente che ciò che sta per accadermi ora non è un male, ma un bene. Infatti, o la morte è un non aver più coscienza di niente, non esser più niente, oppure – come dicono alcuni – è una specie di trasmigrazione dell’anima da questo luogo quaggiù ad un altro luogo. Per cui, se il morire equivale a non avere più sensazione alcuna, ed è come un lungo sonno senza sogni, esso è già per questo un guadagno inestimabile; se invece è come un trapasso ad un altro luogo, ove vi sono tutte le anime dei morti, esso è meglio ancora. Perché il ritrovarsi nell’Ade con sacerdoti, poeti ed antichi eroi, e con tutti costoro seguitare a ragionare, a interrogare e a disputare, per me sarà certamente il sommo della felicità. E nell’un caso e nell’altro non è possibile che ad un uomo dabbene accada mai alcun male, giacché ogni cosa è stabilita ed ordinata dalla benevolenza degli dei. Ma ormai è venuta l’ora di andare: voi a vivere, io a morire. E chi di noi vada a stare meglio, nessuno può saperlo, eccetto il dio.

 

 

 

T E L A

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