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Marco M. G. Michelini | 4 Luglio 2011

[1] ‘Tu me’ inquis ‘vitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum? ubi illa praecepta vestra quae imperant in actu mori?’ Quid? ego tibi videor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. Nullus mihi per otium dies exit; partem noctium studiis vindico; non vaco somno sed succumbo, et oculos vigilia fatigatos cadentesque in opere detineo.

[2] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones,velut medicamentorum utilium compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt.

[3] Rectum iter, quod sero cognovi et lassus errando, aliis monstro. Clamo: ‘vitate quaecumque vulgo placent, quae casus attribuit; ad omne fortuitum bonum suspiciosi pavidique subsistite: et fera et piscis spe aliqua oblectante decipitur. Munera ista fortunae putatis? insidiae sunt. Quisquis vestrum tutam agere vitam volet, quantum plurimum potest ista viscata beneficia devitet in quibus hoc quoque miserrimi fallimur: habere nos putamus, haeremus.

[4] In praecipitia cursus iste deducit; huius eminentis vitae exitus cadere est. Deinde ne resistere quidem licet, cum coepit transversos agere felicitas, aut saltim rectis aut semel ruere: non vertit fortuna sed cernulat et allidit.

[5] Hanc ergo sanam ac salubrem formam vitae tenete, ut corpori tantum indulgeatis quantum bonae valetudini satis est. Durius tractandum est ne animo male pareat: cibus famem sedet, potio sitim exstinguat, vestis arceat frigus, domus munimentum sit adversus infesta temporis. Hanc utrum caespes erexerit an varius lapis gentis alienae, nihil interest: scitote tam bene hominem culmo quam auro tegi. Contemnite omnia quae supervacuus labor velut ornamentum ac decus ponit; cogitate nihil praeter animum esse mirabile, cui magno nihil magnum est.’

[6] Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non videor tibi plus prodesse quam cum ad vadimonium advocatus descenderem aut tabulis testamenti anulum imprimerem aut in senatu candidato vocem et manum commodarem? Mihi crede, qui nihil agere videntur maiora agunt: humana divinaque simul tractant.

[7] Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui, pro hac epistula dependendum. Id non de meo fiet: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc vocem hodierno die legi: ‘philosophiae servias oportet, ut tibi contingat vera libertas’. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae servire libertas est.

[8] Potest fieri ut me interroges quare ab Epicuro tam multa bene dicta referam potius quam nostrorum: quid est tamen quare tu istas Epicuri voces putes esse, non publicas? Quam multi poetae dicunt quae philosophis aut dicta sunt aut dicenda! Non attingam tragicos nec togatas nostras – habent enim hae quoque aliquid severitatis et sunt inter comoedias ac tragoedias mediae -: quantum disertissimorum versuum inter mimos iacet! quam multa Publilii non excalceatis sed coturnatis dicenda sunt!

[9] Unum versum eius, qui ad philosophiam pertinet et ad hanc partem quae modo fuit in manibus, referam, quo negat fortuita in nostro habenda:

alienum est omne quidquid optando evenit.

[10] Hunc sensum a te dici non paulo melius et adstrictius memini:

non est tuum fortuna quod fecit tuum.

Illud etiam nunc melius dictum a te non praeteribo:

dari bonum quod potuit auferri potest.

Hoc non imputo in solutum: de tuo tibi. Vale.

 

 

«Mi esorti a evitare la folla,» scrivi, «ad appartarmi e di essere pago della mia coscienza? Che fine hanno fatto dunque quei vostri precetti che comandano di essere attivi fino alla morte?» Ma come? Ti sembro consigliare l’inerzia? Io mi sono ritirato e ho sbarrato le porte per essere utile a molta gente. Nessuna mia giornata scorre via nell’ozio: parte della notte la dedico allo studio; non mi abbandono al sonno ma soccombo, e tengo fissi al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia.

Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dalle cose e soprattutto dai miei affari: faccio affari per i posteri. Scrivo cose che possano servire loro; affido alle mie pagine consigli salutari, come fossero ricette di utili medicamenti; ne ho sperimentata l’efficacia sulle mie ferite che, sebbene non siano guarite del tutto, almeno hanno cessato di estendersi.

Mostro agli altri la diritta via, che ho conosciuto tardi e ormai stanco del lungo errare. Grido: «Evitate tutto ciò che piace al volgo o che viene attribuito dal caso; fermatevi sospettosi e pavidi di fronte ad ogni bene fortuito; le fiere e i pesci sono tratti in inganno da speranze allettanti. Li credete doni della fortuna? Sono trappole. Chi di voi vorrà condurre una vita sicura, eviti il più possibile questi benefici vischiosi, che traggono in inganno noi, poveri infelici, anche in questo: pensiamo di tenerli in pugno e, invece, ci restiamo attaccati.

Questa strada ci porta al precipizio; il destino di una persona salita tanto in alto è precipitare. E dopo non è possibile neppure resistere, quando la buona sorte comincia a farci deviare dalla retta via: o si prosegue diritti o si precipita una volta per tutte; la fortuna non fa solo deviare, ma fa cadere e fracassa.

Seguite, dunque, questa regola di vita sana e salubre: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Si deve trattarlo alquanto duramente perché non obbedisca di mala voglia all’animo: il cibo deve placare la fame, il bere la sete, i vestiti devono proteggere dal freddo, la casa deve difendere dalle intemperie. Non importa se è stata costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate che un tetto di foglie copre bene l’uomo quanto un tetto d’oro. Disprezzate tutti gli ornamenti e i fregi ottenuti grazie ad inutili fatiche; pensate che nulla è meraviglioso tranne l’anima, e per l’anima, quando è grande, nulla appare grande».

Se parlo di ciò con me stesso, se ne parlo con i posteri, non ti sembra che io mi renda più utile che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo alle tavole del testamento o sostenessi con il gesto e con la voce un candidato senatoriale? Credimi, fanno di più quelli che sembrano che non fare niente: si occupano nello stesso tempo delle faccende umane e di quelle divine.

Ma ormai è tempo di concludere e, come stabilito, devo pagare il mio tributo per questa lettera. Non è farina del mio sacco: ancora una volta cito Epicuro, del quale oggi ho letto queste parole: «Devi servire la filosofia, se vuoi essere veramente libero.» Chi si è sottomesso e si è affidato ad essa, non deve aspettare: viene affrancato subito; infatti, questo stesso servire la filosofia è libertà.

Può darsi che tu mi chieda perché riporti tante belle frasi di Epicuro, piuttosto che quelle dei nostri Stoici: ma che ragione hai di pensare che queste massime siano solo di Epicuro e non patrimonio di tutti? Quanti poeti dicono cose che sono già state dette o che potrebbero essere dette dai filosofi! Non parlerò dei tragici né delle nostre commedie togate (infatti anche questa hanno una certa gravità, e sono una via di mezzo fra tragedia e commedia): quanti versi eloquentissimi ci sono nei mimi! Quante frasi di Publilio Siro dovrebbero essere recitate non da attori scalzi, ma da attori coturnati!

Citerò un solo suo verso che riguarda la filosofia e l’argomento appena discusso, un verso nel quale sostiene che i beni della fortuna non devono essere considerati nostri:

Non ci appartiene quanto accade secondo i nostri desideri.

Ricordo che anche tu hai espresso lo stesso concetto assai meglio e con maggiore concisione:

Non è tuo ciò che la fortuna ha fatto tuo.

Ma voglio citare quest’altra tua massima ancora migliore:

Un bene che può essere dato, può anche essere tolto.

Questo non lo computo come pagamento: ti restituisco un bene già tuo. Stammi bene.

2 Commenti in “L. A. Seneca: Lettere a Lucilio – VIII”

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