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Marco Michelini | 1 Marzo 2020

Linea Biografica

Francesco Berni nacque a Lamporecchio, in Valdinievole, fra il 1497 e il 1498 da Niccolò, notaio, e da Isabella di Francesco Baldi. A Firenze trascorse la prima giovinezza e studiò in un ambiente letterariamente ancora improntato all’esperienza umanistica laurenziana. Nel 1517 giunse a Roma, entrando al servizio del potente cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, suo lontano parente, che ricopriva la carica di segretario pontificio, e, alla morte di questi, restò al servizio del nipote, Angelo Dovizi[1], protonotaio apostolico. A Roma entrò in contatto con il fiorente umanesimo romano, dedicandosi lui stesso a comporre versi latini.

La composizione del Capitolo di Papa Adriano, e, forse, uno scandalo legato ad un amore omosessuale intrecciato alla corte papale, gli costarono l’esilio (1523) nella badia di San Giovanni in Venere presso Lanciano, in provincia di Chieti. Morto Adriano VI ed eletto Clemente VII, il Berni poté fare ritorno a Roma, dove passò al servizio, in qualità di segretario, dell’austero datario pontificio Giovan Matteo Giberti[2], futuro vescovo di Verona, che perseguiva un grande progetto di riforma della chiesa e promuoveva il disegno dell’indipendenza degli stati italiani (e in primo luogo del papato) dalle ingerenze straniere.

Il Giberti esigeva dai suoi collaboratori un’irreprensibile disciplina, alla quale il Berni si mostrò più volte ribelle, esprimendo nello stesso tempo un sostanziale scetticismo sui suoi disegni politici. Tuttavia la disciplina del Giberti non mancò di produrre effetti profondi sulla sua personalità e sulla sua attività letteraria: abbandonò infatti sia la poesia latina si i versi osceni in volgare che aveva composto fino ad allora, limitandosi a scrivere qualche sonetto di natura polemica e satirica.

Il Sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi travolsero definitivamente i disegni politici del Giberti che fu consegnato con molti altri ostaggi, radunati in Campo de’ Fiori, in attesa che si trovasse il denaro richiesto dai mercenari tedeschi. Successivamente venne poi rinchiuso a Palazzo Colonna, da cui riuscì ad evadere avventurosamente attraverso il camino, fuggendo a Verona.

Il Berni, sopravvissuto ai massacri, alla fame, alla peste, riparò per qualche tempo in Mugello, dove aveva delle proprietà; quindi raggiunse nel vescovado di Verona il padrone. Nel 1532 abbandonò il servizio del Giberti ed entrò in stretta relazione sia con Ippolito che con Alessandro de’ Medici, che lo coinvolsero nella lotta per la successione alla Signoria di Firenze. Morì nel 1535 in casa di Ricciarda Malaspina[3], a soli 38 anni, dopo un’agonia durata una settimana, e si disse che fosse stato avvelenato.

 

Le opere

L’avversione profonda che Berni nutrì per il suo fortunato, libero e ossequiato coetaneo Aretino, non ha soltanto radici in una concezione opposta dell’esercizio letterario, ma si fonda e si giustifica ampiamente nella biografia del piccolo cortigiano quale egli fu, costretto a ricercare e a subire la protezione di influenti patroni, e ad uniformare ad essi la sua vita e la sua condotta, e alle inimicizie e ambizioni dei quali, infine, finì sacrificato.

L’opera di esordio del Berni, se così vogliamo chiamarla, è La Catrina, una farsa rusticale in ottave costruita sul modello delle farse senesi, che comunque – per quanto certamente nota in ambiente fiorentino – non venne data alle stampe. Questo primo tentativo letterario può considerarsi completamente fallimentare, poiché in esso manca ciò che è assolutamente essenziale ad un simile componimento: l’effetto comico. Le stanze, rifinite e sentenziose, si mostrano eccessivamente fedeli ai modelli di una classicità stantia, cui gli equivoci verbali non sanno dare la benché minima vivacità.

La stessa cosa si può quasi dire, con le debite distinzioni, dei Carmina latini ai quali il Berni si dedicò – per quanto non assiduamente – fino al 1523/24. Condotti su modello catulliano e virgiliano in modo del tutto convenzionale, essi non vanno oltre il volonteroso tentativo letterario e libresco, non s’accendono neppure di luce riflessa e rimandano un’immagine sbiadita di un’ambigua solerzia nello studio degli auctores.

Ma è con le rime volgari – sonetti, sonetti caudati, capitoli ecc. – che il Berni fonda la sua lunga fortuna tra i letterati del Seicento e del Settecento, «che non è la fortuna di un poeta, ma di un maestro di lingua e di stile»[4]. I suoi capitoli in terza rima, infatti, e anche i lunghi sonetti caudati, talora di contenuto scabroso (Sonetto delle puttane, 1518; Capitolo d’un ragazzo, 1522‑1523), spesso ricchi di doppi sensi osceni (Capitolo dell’anguille, Capitolo dell’orinale, 1522) pur nel prevalere dell’intonazione antifrasticamente encomiastica, concludono – unitamente alle satire dell’Ariosto – quel processo di trasformazione subito dalla terzina dantesca in direzione del comico e del colloquiale. E se la Roma papale poteva offrirgli i bersagli sacri e solenni cui rivolgere la sua satira (Capitolo di Papa Adriano), in Toscana egli poteva collegarsi alla più densa vena burlesca ed epigrafica della nostra letteratura (Angiolieri, Burchiello, Pulci), e più ancora ai canti carnascialeschi fiorentini, nei quali tutto si traduceva in un gioco di equivoci osceni, in metafore di organi ed atti sessuali (di preferenza omosessuali).

A questi faranno seguito poi testi in qualche misura più controllati e prevalentemente d’occasione (sonetti Contra Pietro Aretino, Contro Sigismondo Malatesta, 1527) o descrittivi di ambienti ed episodi cortigiani (il ciclo di sonetti sulla malattia di Clemente VII, 1529) o rustici (Capitolo del prete da Povigliano), del tradizionale repertorio misogino e antiuxorio (Sonetto contra la moglie) o caricaturali di tipi caratteristici, umani (Vaghezze di maestro Guazzalletto medico) e animali (Sonetto alla mula).

Del 1532 è il Capitolo primo della peste, famoso per la dissacrazione della più autorevole mitologia poetica, del 1533 il Capitolo dell’ago, un’altra volta altamente osceno, del 1534 il Capitolo a fra Bastian dal Piombo, con un attacco al petrarchismo corrente, tutto ironicamente costruito su prestiti petrarcheschi, e la lode, poi divenuta famosa e pressoché proverbiale, della vigorosa lirica michelangiolesca. L’ultima composizione (il Sonetto delli bravi, 1535), infine, è singolarmente in carattere con il clima violento della Firenze di quegli anni, del quale – a quanto sembra – il Berni stesso restò vittima.

Come il detestato Pietro Aretino – detestato poiché in Venezia godeva di una posizione agiata e di maggiore libertà – il Berni toglie al ruolo della scrittura ogni aura di curialità, facendone un gioco “per poltroneria” (come egli stesso dice), per il gusto di ridere e di deridere. La sua satira, tuttavia, le sue “sferzate” non divengono mai un mezzo per spingere ad un cambiamento, ma rimango fini a se stesse. Egli, insomma, è solo l’intellettuale che con disincanto si burla del mondo senza pensare a cambiarlo, rimanendo ancorato ad un realismo minuto che cerca la propria originalità nell’insolito e nel bizzarro. E se proprio si vuole cercare il meglio del Berni poeta bisogna cercarlo in quella sua «notevole abilità e agilità discorsiva e descrittiva che ben si avvale delle risorse del linguaggio toscano dell’uso corrente, nella sua grande ricchezza di modi di dire, di parole calzanti e pittoresche»[5]; bisogna cercarlo laddove il poeta, o la sua maschera di buffone, riesce a ridere di se stesso, per cui il riso si vena di amarezza e la “poltroneria”  riesce a muoversi da sentimenti meno effimeri ed esteriori, da una visione della vita più drammatica e remissiva.

Va ricordato, comunque, che nel 1531 il Berni aveva compiuto un rifacimento dell’Orlando innamorato del Boiardo, che aveva di mira il riassetto linguistico del poema, per liberarlo dalle componenti dialettali lombarde e padane della redazione originale. Affascinato dalla concezione bembistica del linguaggio poetico, il Berni, ricorrendo ad una terminologia allusiva e puristica, finì però con l’annullare lo spirito boiardesco e la sua nostalgica idealizzazione del mondo cavalleresco; e quei proemi, tanto cari al Foscolo, che egli inserì nell’opera – al pari degli spunti autobiografici – altro non sono che un pigro esempio di sapienza letteraria.

Nel 1526 Berni compose due opere in prosa: la prima, il Comento al Capitolo della primiera, è un divertimento erudito sulle origini e le varianti di tale gioco, nonché un encomio scherzoso degli splendori di esso; la seconda, il Dialogo contra i poeti, è un’opera in forma dialogica che, condotta sul filo del paradosso, trae abilmente spunto da semplici tracce linguistiche e si conclude con un’aspra e inappellabile condanna dei poeti pronunciata dallo stesso Berni: «Confessai che era stato poeta, rendendomene in colpa come dolente e pentito e promettendo di essere altretanto ostinato e contrario; così il ridico adesso, e confermo che mi spoeto». Tale affermazione può essere intesa in più sensi, e, in primo luogo, come esplicita negazione della validità “professionale” dell’attività letteraria; ma può anche essere letta, in concomitanza con l’entrata del Berni al servizio dell’austero Giberti, come una palinodia nei confronti della sua precedente produzione scurrile.

*** NOTE ***

[1] Angelo Dovizi nacque probabilmente a Roma, sul finire del 1400, da Giovan Battista e da Ginevra Tani. Alla caduta del governo mediceo (1494) il padre venne esiliato e si recò a Roma con la Famiglia. Angelo venne affidato alle cure dello zio, Bernardo Dovizi, e dopo la nomina di questi a cardinale ne divenne il segretario. Nel 1518 venne nominato protonotaio apostolico e inviato come governatore a Città di Castello, dove rimase per pochi mesi. Nel 1520, in seguito alla morte dello zio, il cardinale Bernardo, che lo aveva nominato erede universale, ricevette in beneficio l’abbazia di S. Giovanni in Venere, situata in Abruzzo. Nel 1522 in seguito all’epidemia di peste scoppiata a Roma si trasferì a Firenze e nel 1544 entrò a far parte della Segreteria del duca Cosimo I de’ Medici. Circa a metà del 1558 si trasferì definitivamente a Roma, per dedicarsi a tempo pieno alla vita religiosa, e fu accolto nella Compagnia di Gesù. Nel 1561, essendo divenuto rettore del collegio gesuitico della città, si trasferì a Macerata, dove morì nel 1564.

[2] Gian Matteo Giberti (Palermo, 1495 – Verona, 1543) nacque a Palermo, figlio naturale di una donna palermitana e di Francesco Giberti, capitano della marina genovese. Rimase con la madre circa dieci anni finché il padre, passato al servizio di Giulio II, lo chiamò con sé a Roma, dove condusse regolari studi, mostrandosi particolarmente versato nella lingua greca e latina, tanto da essere ammesso all’Accademia Romana. Entrato al servizio di Giulio de’ Medici nel 1513, fu gratificato di diversi benefici, tra i quali quello dell’abbazia genovese di Santo Stefano e, in occasione dell’elezione al papato di Leone X, fu nominato segretario particolare del cardinale. Ordinato sacerdote nel 1521, alla morte del pontefice avvenuta il 1º dicembre di quell’anno svolse, per conto del cardinale Giulio, interessato a ricevere il sostegno alla sua Firenze delle potenze straniere, trattative diplomatiche che lo portarono nelle Fiandre, in Francia, in Inghilterra e in Spagna da dove ritornò in Italia nel gennaio 1522. Quando nel novembre 1523 il cardinale de’ Medici fu eletto papa col nome di Clemente VII, il Giberti fu presto nominato datario, ossia responsabile della dispensa dei benefici ecclesiastici e, pochi mesi dopo, nel 1524, titolare della diocesi di Verona. Incaricato da Clemente VII di limitare l’influsso della Spagna e dell’Impero sull’Italia, il Giberti fu il principale artefice della Lega di Cognac (1526) cioè dell’alleanza tra Francia, Venezia, papato e Ducato di Milano, con la benevola neutralità dell’Inghilterra di Enrico VIII.

[3] Ricciarda Malaspina (??, 1497 – Massa, 1553), figlia del marchese Antonio Alberico II Malaspina, fu marchesa di Massa dal 1519 al 1546 e dal 1547 alla morte. Sposò in prime nozze Scipione Fieschi, già vedovo di sua sorella Eleonora, e in seconde nozze Lorenzo Cybo, conte di Ferentillo.

[4] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 138.

[5] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 221.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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