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Marco Michelini | 14 Aprile 2020

Linea Biografica

Pietro nacque ad Arezzo nel 1492 da una famiglia di condizione modesta: il padre era calzolaio, la madre una cortigiana. Nel 1506, ancora adolescente, si trasferì a Perugia, dove intraprese l’attività pittorica e quella letteraria, frequentando anche la locale università.

Nel 1517 si stabilì a Roma, sotto la protezione del banchiere senese Agostino Chigi[1], segnalandosi ben presto nella cerchia cortigiana di Leone X. Nel corso del conclave succeduto alla morte di questi, scrisse probabilmente uno dei suoi primi lavori, le cosiddette Pasquinate (cioè poemetti satirici scritti sulla base delle anonime proteste affisse sul busto in marmo del Pasquino, a piazza Navona) contro i cardinali riuniti, e, in particolare, contro Adriano di Utrecht, vedendosi costretto a trasferirsi a Mantova, presso Federico Gonzaga[2], quando proprio il principale bersaglio della sua feroce attività satirica fu eletto papa con il nome di Adriano VI. La Roma di Clemente VII lo accolse nuovamente, ma per poco, poiché le vicende religiose a seguito della riforma luterana avevano provocato l’irrigidimento della curia romana, che – seppure affannosamente e in maniera scomposta – cercava di imporsi comportamenti che la sottraessero da quelle accuse da quelle accuse di “paganesimo” che ormai da ogni parte le piovevano addosso. Quindi poco o nulla valsero a Pietro i meriti acquisiti con alcune canzoni encomiastiche rivolte al Papa, a confronto con la colpa di aver composto i Sonetti licenziosi (o Sonetti dei XVI modi) a commento di altrettante incisioni erotiche di Marcantonio Raimondi[3] su disegni di Giulio Romano[4]. In seguito ad un’aggressione subita nel luglio 1525, nella quale l’Aretino fu pugnalato al volto ed alle mani (ed era stato il cardinale Giberti, datario pontificio e promotore della nuova linea di rigore, del quale con i suoi componimenti osceni egli aveva sfidato l’ostilità, ad armare la mano del sicario) si pose al seguito di Giovanni dalle Bande Nere[5]. Alla morte di questi, avvenuta in seguito a una ferita da arma da fuoco nella battaglia di Governolo, rimase nuovamente senza protettore, cliente scomodo e pericoloso per quanti, come il Gonzaga, non se la sentivano di sfidare le ire della Curia romana.

A partire dal 1527, un occasionale soggiorno nella Serenissima si trasformò in dimora stabile, giacché si mostrava una base ben più sicura e protetta dalle minacciose brighe della corte papale, che l’aveva ormai segnato sulla lista nera e che, del resto, egli stesso provvedeva a mantenere in uno stato di esasperazione con i continui sfoghi del suo livore estroso e velenoso. A Venezia si svolse la parte più fortunata e splendida della sua esistenza, tra amori di cortigiane e frequentazioni e amicizie con aristocratici e mercanti, con artisti che aveva già conosciuto durante il soggiorno romano e con stampatori. Pietro Aretino, protetto e vezzeggiato dai principi e dai potenti, che ne paventavano il «flagello», partecipò, naturalmente, in prima persona alle controversie e alle risse tra i letterati suoi contemporanei, per lo più originate e alimentate da rivalità e odi personali, con i quali diede vita a scontri che, per il loro livore, furono destinati a restare tra i più celebri del secolo. Otteneva, nel frattempo, regalie e pensioni sempre più cospicue da signori e principi del tempo, in particolare da Carlo V, che, a partire dal 1536, si assicurò il suo sostegno pubblicistico nella contesa che lo opponeva a Francesco I, e che nel 1543 gli riservò pubbliche e principesche manifestazioni di riguardo. Ricco e famoso, morì improvvisamente nel 1556, per un colpo apoplettico.

 

Le commedie

Per quanto non fosse assolutamente cosa nuova, accostarsi al teatro «era per l’Aretino il passo più facile, che gli consentiva per esempio di dare piena espressione alla sua propensione al parlato, ma acne di proporre un suo exemplum di scrittura più complessa e non d’occasione, e insieme di recuperare momenti significativi della produzione precedente»[6].

Ormai stabilitosi definitivamente a Venezia, dove nel 1512, aveva visto la luce la sua Opera Nova, frutto delle esperienze poetiche giovanili compiute a Perugia, l’Aretino pubblica nel 1533 il Marescalco, ritratto e satira della provinciale corte, e nel 1534 la Cortigiana, elaborata in prima stesura nel 1525 e poi rimaneggiata profondamente. La trama di questa commedia, già nell’edizione veneziana, si sviluppa intorno a due nuclei fondamentali costituiti dalle avventure del goffo e credulo messer Maco da Siena, venuto a Roma per iniziare la carriera cortigiana, e dalla vicenda di Parabolano da Napoli, gentiluomo della corte papale che aspira ai favori della nobildonna Livia.

Al di là delle varianti nella disposizione delle scene e dell’abolizione di alcune figure drammatiche nella redazione del ’34, la differenza fondamentale, e anche più vistosa, consiste nella soppressione del lunghissimo prologo che precede la Cortigiana del 1525. Il prologo, infatti, della prima stesura è tutto intriso di cronaca e attualità, e costituisce inoltre la prima presa di posizione antiletteraria dell’autore, la prima esplicita professione di esasperato e talvolta confuso anarchismo che anima la polemica antiplatonica e antipetrarchista per la quale l’Aretino si compiaceva di proclamarsi nemico di ogni pedanteria. Con la nuova stesura, l’Aretino riprese tutti i vecchi richiami realistici alla corte papale, «ma ebbe cura di aggiornare i riferimenti, riducendoli o esplicitandoli in vista degli interessi, della politica e della cultura del nuovo pubblico, non più locale ma nazionale. Pur non smettendo del tutto i panni che erano stati di Pascquino e che imponevano vivacità e icasticità d’espressione e libertà di linguaggio, Si mosse decisamente verso una forma più “alta” di scrittura teatrale. Rientra in questo lavorio, per esempio, la riduzione e la normalizzazione del prologo della prima Cortigiana»[7].

Tutti i personaggi della Cortigiana sono tratti dalla realtà, e precisamente identificabili con figure storiche, dal Datario pontificio Giberti, all’oste Riccio, a monna Maggiorina. Ed anche il prologo e l’argomento si presentano come cortigiani ai quali spetta l’ingrato e rischioso compito di illustrare la cronaca della Corte, coinvolgendo immediatamente nel gioco la folla degli spettatori interpreti di quella realtà viva e quotidiana che irrompe prepotentemente sulla scena, sostituendosi alla finzione della commedia che si dovrebbe recitare. Tanto che la rappresentazione non ha una vera conclusione: si interrompe soltanto; e l’autore prende commiato dal pubblico con un «a rivederci a Ponte Sisto», cioè in un luogo reale, dove lo spettacolo continua al di fuori del palcoscenico senza mai aver fine, perché sulla scena della realtà non cala mai il sipario.

Composto fra il 1527 e il 1530, il Marescalco è una commedia in prosa, nella quale viene messa in scena una beffa ordita dal duca di Mantova, con la complicità di tutta la corte, ai danni di un maniscalco omosessuale suo cortigiano, il quale viene costretto dal suo signore a sposare una giovane gentildonna, in realtà un fanciullo travestito da ragazza. Alla sessualità del protagonista si allude ripetutamene: nel rapporto con le donne, nell’adesione contro voglia prima all’ordine del Duca, e poi al sollievo provato nello scoprire la vera identità della sposa.

Ma, mentre nella Cortigiana l’Aretino commediografo penetrava con disincanto e lucidità di sguardo in quella Roma che tentava – per quanto con fatica – di “purificarsi”, nel Marescalco egli rinunzia non solo alla sua indipendenza di giudizio ma anche al suo occhio critico, per limitarsi a descrivere la vita della corte mantovana nella disponibilità al divertimento frivolo e al gusto del pettegolezzo, con intermezzi burleschi e digressioni talvolta moraleggianti.

Un’altra particolarità della commedia è che la vicenda, pur coinvolgendo personaggi e ambienti cortigiani, si consuma tutta all’ombra dal “Castello” e dal suo “Signore”: né la corte, intesa come luogo fisico, né il Duca compaiono mai, e questo benché il Duca sia la figura attorno al quale ruota tutta l’azione in quanto promotore, regista e deus ex machina della beffa che viene rappresentata.

I testi teatrali successivi – Lo ipocrito (1542), Talanta (1542), Il filosofo (1546) – perderanno tutti immediatezza e “baldanza” per scadere nella convenzionalità. E per quanto l’Aretino riesca a mantenere in  esse la fedeltà al gusto del parlato, con la sintassi mobilissima e il linguaggio vivace, gli intrecci diventeranno sempre più scontati, i personaggi reitereranno i gusti narrativi del tempo e tutta la struttura si appiattirà in un gioco di bravura verbale, in cui le sferzate delle Pasquinate si trasformano in generiche denunce.

L’Orazia (1546), ultima opera teatrale dell’Aretino, si differenzia dalle altre non solo per la scelta del genere tragico e per la stesura in versi, per il progressivo accrescimento di cura e di vigilanza letteraria, ma anche per la sua evidente strumentalità. Sulla traccia del racconto liviano della battaglia tra Orazi e Curiazi, l’autore realizzò la tragedia dell’Orazia Clelia innamorata di uno dei Curiazi e perciò lacerata tra gli affetti familiari e di patria e la passione amorosa. Così dopo la lotta dei campioni di Alba e di Roma, durante il trionfo del fratello superstite, ella manifesta tutto il suo dolore quando riconosce tra le spoglie dei vinti una veste da lei stessa tessuta per l’amato. Quel dolore offende il fratello vincitore, e lo fino spinge ad uccidere la fanciulla, con l’approvazione del fiero padre. Nel contrasto dei sentimenti di Clelia e del fratello, nella difesa impetuosa dei diritti dell’amore di fronte ai ferrei affetti civili della patria e dello Stato, si manifesta uno dei punti d’arrivo più interessanti dell’arte aretiniana. Del resto l’autore aveva, come sempre in tutta la sua vita, “fiutato l’aria”: nel 1546 l’Aretino era universalmente riconosciuto sia come scrittore che come politico di razza, e c’erano quindi tutti i presupposti per fare quel salto di qualità che avrebbe definitivamente sancito i risultati straordinari della propria carriera, consentendogli di raggiungere quella solenne autorevolezza che ancora gli mancava e – perché no – sospingerlo verso la porpora cardinalizia. Non è quindi strano che l’Aretino dedichi la tragedia al Papa Paolo III, che rimase tuttavia indifferente alla lusinga.

«La tragedia esprime la volontà di adeguamento al livello più alto riconosciuto dalla poetica del classicismo. In questo senso rappresenta un vero e proprio tradimento alle idealità fino ad allora perseguite e proclamate. La posta in gioco era del resto altissima, e richiedeva un dietrofront perentorio e inequivocabile. Gli esiti raggiunti sono stati ancora discussi, pure sarebbe inopportuno e ingiusto valutare l’opera in termini eccessivamente univoci. Del resto le discussioni sullo statuto della tragedia volgare erano appena avviate, e all’Orazia, che seguiva alla Sofonisba di Gian Giorgio Trissino (1523) e all’Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio (1541), possono a buon diritto riconoscersi le attenuanti della scrittura sperimentale»[8].

 

Le Sei giornate

Sotto il titolo complessivo di Ragionamenti vennero giustapposte fin dall’edizione del 1584 due opere composte dall’Aretino rispettivamente nel 1534 e nel 1536: il Ragionamento della Nanna e della Antonia fatto in Roma sotto una ficaia e il Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa sua figliola. Scritte dall’Aretino in un periodo di finalmente assestata e clamorosa prosperità personale, sono entrambe divise in tre parti, corrispondenti a una giornata ciascuna (da cui il titolo, originario e più esatto, di Sei giornate), e si incentrano su una materia dichiaratamente oscena, che è all’origine della fortuna grande e costante – anche se, per lo più, clandestina – che arrise alle due opere.

Ma nei confronti del modello, canonicamente costituito dal dialogo platonico, ben diversa è la qualità, lo specifico rispettivo del Ragionamento e del Dialogo, per i quali la stessa cifra dominante e comune dell’oscenità va diversamente interpretata. Come ha notato Davico Bonino, in contrapposizione al concetto dell’Amore come conservatore dell’Ordine, il Ragionamento celebra l’equazione Amore-Disordine attraverso due ben precise caratteristiche: la presenza straripante, ossessiva del sesso – e il fatto che a rappresentarlo sia chiamata gente bassa e vile – e l’accumularsi frenetico dei più vari atti sessuali in una descrizione tanto minuziosa e attenta quanto disperdente, che è la cifra appropriata della frammentazione e dell’irrazionalità del mondo e dell’esperienza umana.

«L’impianto narrativo si giova di uno schema ideale, di matrice patristica, che teorizzava vari stati nella vita della donna; per esempio la serie bambina, fanciulla, moglie, vedova, monaca. L’Aretino seleziona, di questa serie, gli stati maggiormente funzionali alla prospettiva sessuale (monaca, moglie, puttana), e li orienta e integra allo scopo di giustificare su tutti la figura e il ruolo della puttana. La dinamica che di fatto si istituisce tra il primo e l’ultimo stato è paradossale, e la gerarchia che ne consegue, pur avvalorata dalla logica interna dell’impianto e dei discorsi, è presentata come formalmente negativa. la giustificazione è evidentemente posticcia, relegata al titolo e a un rapido passaggio della dedica, ma di fatto smentita dallo sviluppo complessivo dell’opera, e implica un percorso‑degradazione pressoché inevitabile dai primi due stati al terzo. Del resto la centralità della protagonista e la coincidenza tra itinerario teorico e biografia lasciano poco spazio ad altri sviluppi»[9].

La Nanna, già donna di piacere ed ora esperta e sollecita madre della Pippa, racconta alla comare Antonia le vicende più importanti della propria vita: l’entrata da giovanissima nel monastero nel quale, dopo aver vestito l’abito religioso, ebbe la sua iniziazione sessuale; l’uscita dal monastero e il matrimonio con un uomo ricco ma poco avveduto, che la Nanna tradisce arrivando all’uxoricidio; infine la venuta a Roma e l’ingresso nel mondo delle cortigiane. Le due donne si domandano quale potrà essere lo stato più conveniente per la giovane Pippa, e la risposta è tanto ovvia quanto scontata: la carriera di prostituta è la più sicura e, forse, anche la più onesta.

Nel Dialogo, invece, l’«arte puttanesca» è fatta oggetto di un accurato insegnamento rivolto dalla Nanna alla figliola Pippa. Proprio la possibilità che una qualsiasi attività sia insegnata e trasmessa sulla scorta dell’esperienza, e, più ancora, codificata nei suoi principi fondamentali, fa fede della sua precisa collocazione in un mondo nel quale le cose, le persone e il loro agire cercano comunque un collocamento riconoscibile, indicabile. Il fatto che qualcosa sia comunicabile testimonia dell’esistenza di un codice di comunicazione, convenzionale fin che si vuole, ma che, per quanto arbitrario e scandaloso, si propone come ordinatore del mondo. Al di là dell’esposizione di caratteri, del tono pressoché macchiettistico, che rimanda alla codificazione comica dei vari tipi umani (e potrebbe, certo, valere benissimo come repertorio di atteggiamenti e di battute per l’utilizzazione in commedia), il Dialogo va inteso come rivelatore della prospettiva che il “puttanesimo” è prima di tutto un mestiere, ma finisce per attingere ad una sua specifica assolutezza. L’esercizio della prostituzione è proposto come centro – uno dei tanti possibili, ma non il meno giustificato – del mondo, e ad esso si rapportano i costumi e le fantasie delle persone per risultarne più compiutamente svelate, più chiaramente espresse, e, infine, tipizzate nel modo più perspicuo.

Dopo le Sei Giornate, l’Aretino pubblicò nel 1538 i Ragionamenti de le corti e nel 1543 il Dialogo nel quale si parla del gioco con moralità piacevole (più comunemente noto come Dialogo delle carte parlanti), due opere che proseguono nella trattazione di temi che gli erano cari: la prima è uno sfogo (artisticamente filtrato dall’esperienza veneziana) del residuo anticortigianesco, con il sottinteso tema della libertà o piuttosto della “disponibilità” individuale; la seconda, invece, col far parlare le carte da gioco, rappresenta una satira delle illusioni e delle debolezze umane. Sono comunque due opere convenzionali e minori, che, rispetto ai livelli di vivacità ed incisività raggiunti nelle Sei Giornate, non riescono, nonostante lo stile più maturo e la più complessa trama saggistica, ad oltrepassare il segno della stereotipata adesione alle movenze tipiche della società contemporanea.

 

Le opere di argomento sacro

Del tutto prive di ispirazione religiosa, le opere aretiniane di argomento sacro, che si susseguono dal 1534 al 1543, si giustificano come risposta alla richiesta – particolarmente viva in quegli anni – di una pubblicistica cattolica rivolta a un pubblico ben più ampio di quello che poteva accostarsi al De partu Virginis di Sannazaro (1526); e, d’altro canto, se le prime avvisaglie di una posizione difensiva e controriformata si potevano già cogliere nella Christhias di Girolamo Vida[10] (1535), si può dire che questa parte della produzione aretiniana è nettamente prebarocca. Certo, questa prosa dal contenuto scarsissimamente ideologizzato, copiosa di descrizioni e di paragoni, fitta di immagini, costituisce il modello prossimo al quale furono rapportate le fonti e le suggestioni – talora remotissime nel tempo e nello spazio – che Giovan Battista Marino, meno di un secolo più tardi, radunò per le proprie Dicerie sacre; ma, più puntualmente, è alla Strage degli innocenti aretiniana, ricca di indugi descrittivi e patetici, che va ricondotta quella descritta da Marino nel terzo libro del poema omonimo.

Sarebbe agevole documentare la ripresa di ben precise immagini, a testimonianza, per l’uno e per l’altro autore – per vicende di vita, per caratteristiche di stile, per scelte di poetica tanto affini, se non simili – dell’istituirsi e del perdurare di una tradizione di scrittura che sa disinvoltamente trarre dalla copiosa materia biblica e agiografica lo spunto e l’alimento per la propria compiaciuta esuberanza descrittiva ed effusione emotiva. E se in questa sede ci si astiene dal farlo, è per non ridurre il nostro tutto sommato semplice discorso ad una ricerca pedantesca di interesse esclusivamente specialistico.

Cerchiamo ora di fissare i caratteri della produzione aretiniana di argomento sacro, tenendo presente che si tratta di una serie di opere ben distinte sia per cronologia che per argomento. La prima fase è rappresentata dalla Passione e da I sette Salmi de la penitenzia di David (1534), dall’Umanità di Cristo (1535, nella quale rientra anche la Passione), e dalla Genesi (1538), che appartengono tutte al genere della parafrasi biblica, «libera quanto si vuole nella riformulazione del dettato e nell’accentuazione tonale, ma sempre oltremodo rispettosa dello spirito e del disegno originario»[11]. La seconda fase è costituita dalla Vita di Maria Vergine (1539), dalla Vita di Caterina vergine e martire (1540) e dalla Vita di s. Tommaso beato (1543), tutte opere agiografiche, per le quali l’Aretino, «consonante agli spiriti della cultura controriformistica, e nella maturazione di uno stile modernamente composito, si rifece alla tradizione iconografica ed a quella letteraria con più intensa e consapevole determinazione culturale»[12].

Nonostante la totale mancanza di spirito religioso, di cui abbiamo già detto all’inizio, e la farraginosa riuscita di tali prime composizioni (Salmi e Genesi) – fatta eccezione per l’Umanità di Cristo, ove la vicenda di Gesù viene presentata attraverso una prosa intensa, incisività artistica e vivezza di effetti figurativi – deve essere riconosciuto all’Aretino il merito di avere letteralmente inventato la scrittura sacra.

 

Le lettere

Come spesso accade, anche la fama dell’Aretino è affidata alle opere che, pur portando ben impresso in sé il segno particolare del loro autore – vale a dire Ragionamento e Dialogo, i quali, certo, assicurano egregiamente la fortuna di uno scrittore irregolare, pruriginoso, pornografico, «infame», quale appunto l’Aretino è generalmente conosciuto – non sono tuttavia considerate, in ambito critico, come fondamentali per l’originalità e la fertile novità che le contraddistingue. È l’epistolario, al quale Aretino attese per circa vent’anni, dal 1538 fino alla morte, con una cura e una costanza che andava ben al di là dell’ubbidienza a stimoli contingenti, occasionali, celebrativi, e anche economici e di profitto, come avvenne per le altre opere, che costituisce invece l’atto di nascita di un nuovo genere letterario. La dispersività che caratterizza la produzione precedente assume segno positivo, e diventa piacevole, appropriata varietà, legittimandosi nel particolare carattere di questo epistolario, il primo in volgare della nostra letteratura.

Il primo volume di Lettere, che Aretino costituì raccogliendo fogli volanti già in precedenza pubblicati, è di argomento prevalentemente politico, e ha fini per lo più pubblicistici, mentre destinatari ne sono alcuni grandi personaggi contemporanei. Ma a queste si affiancano, sapientemente intercalate, le lettere encomiastiche e descrittive che avranno spazio sempre maggiore nei volumi successivi. Larga parte è inoltre data alle dichiarazioni di poetica: da quella più generale, della supremazia della natura sull’arte, che conferisce ad Aretino il definitivo suggello di irregolarità, antiaccademismo e «bizzarria», fino alla puntuale individuazione di una lingua gergale, privilegiata per sapidità e «naturalità», quale quella «burlesca».

Ma è, d’altro canto, la scrittura encomiastica, non tanto nel suo determinarsi come lode di persone, quanto nel suo proporsi come lode e descrizione dei più svariati oggetti, che proietta Aretino in una dimensione spiccatamente «prebarocca». Difficile, di fronte a lettere di ringraziamento per doni quali selvaggina o primizie di frutta e verdura, non pensare a tanta poesia di ambito marinista; e ancor più, quando l’oggetto della descrizione è la cosa d’arte[13], e l’interesse descrittivo passa di gran lunga in secondo piano rispetto alla tensione agonistica che porta la scrittura a misurarsi con la pittura per affermarsi validamente quale mezzo figurativo ed evocativo, è immediato il riferimento, se non altro, alla Galena del Marino.

Tuttavia, al di là di accostamenti parziali, è nella sua interezza che l’epistolario aretiniano va visto; e come accentramento delle più varie esperienze, degli spunti più eterogenei intorno alla personalità – che tutto organizza e giustifica – dell’autore che espone, manifesta sé in prima persona, senza filtri o diaframmi narrativi o allusivi, va riconosciuto nella sua eccezionale novità e modernità. Per la prima volta l’oggetto della narrazione è l’io narrante, che non aliena se stesso in creazioni fantastiche allusive a sé. È questo il risultato più alto e determinante (fu subito ripreso, pur con esiti di gran lunga inferiori, da Niccolò Franco e da Anton Francesco Doni) della ribellione antiaccademica e antiformalistica del «bizzarro» Aretino.

*** Note ***

[1] Agostino Andrea Chigi, detto il Magnifico, (Siena, 1466 – Roma, 1520), nacque da Mariano e Margherita Baldi. Iniziò l’apprendistato con il padre che aveva due banchi, a Siena e a Viterbo, e nel 1487 vene inviato a Roma per lavorare in società con un altro senese, Stefano Ghinucci, al banco di Giulio e Antonio Spannocchi. Con l’ascesa al soglio pontificio del cardinele Borgia, venne tolta ai Medici la gestione delle finanze vaticane per affidarle agli Spannocchi. Agostino riuscì a prevalere sul proprio maestro Ghinucci e instaurò un duraturo rapporto di finanziamento con Papa Alessandro VI. Finanziò le imprese belliche di Cesare Borgia, prestò denaro a Guidobaldo da Montefeltro, a Piero de’ Medici e nel 1502 fondò a Roma il Banco Chigi assieme al padre e all’amico Francesco Tommasi. Organizzò delle sfarzose feste in Vaticano per divertire i papi e in quel periodo iniziò la sua opera di mecenatismo. Ordinò a Baldassarre Peruzzi la progettazione e la costruzione sulla riva destra del Tevere di una villa sontuosa, Villa Farnesina, che presto divenne uno dei luoghi più frequentati da artisti e uomini di potere dell’epoca. Amante dello sfarzo e dell’arte, commissionò numerose opere ad artisti del valore di Raffaello, del quale fu grande amico, di Sebastiano del Piombo e del Sodoma.

[2] Federico II Gonzaga, primo duca di Mantova e Marchese del Monferrato (Mantova, 1500 – Marmirolo, 1540), figlio del marchese di Mantova Francesco e di Isabella d’Este, crebbe tra la corte papale di Giulio II prima e quella di Francia poi, presso le quali (fin dal 1510) era stato inviato come ostaggio. Morto il padre nel 1519, gli successe come marchese di Mantova, rimanendo sotto la reggenza della madre e la tutela degli zii, il cardinale Sigismondo e Giovanni. Nel 1521, venne nominato capitano della Chiesa da Papa Leone X combatté con fortuna (1521) a Parma e a Milano. Creato duca di Mantova da Carlo V nel 1530, ottenne anche dall’Imperatore, dopo una lunga causa (1533-36), il titolo di marchese del Monferrato ereditato dalla moglie Margherita Paleologo. Brillante mecenate, la sua corte fu frequentata da celebri letterati e artisti.

[3] Marcantonio Raimondi (Molinella, 1480 ca – Bologna, 1534) fu un incisore bolognese (il più importante e celebrato del Rinascimento) molto attivo a Roma, dove ebbe modo di collaborare con i maggiori artisti della sua epoca. Si recò a Roma nel 1510 lavorando soprattutto su disegni di Raffaello e, dopo la morte dell’urbinate, in collaborazione con Giulio Romano e Baccio Bandinelli. A causa di incisioni licenziose tratte da disegni di Giulio Romano finì in carcere per qualche tempo, ma Pietro Aretino riuscì ad ottenerne la scarcerazione da Clemente VII. Dopo il sacco di Roma ritornò a Bologna.

[4] Giulio Pippi de’ Jannuzzi, detto Giulio Romano (Roma, 1499 ca – Mantova, 1546), fu l’allievo più dotato e uno tra principali collaboratori di Raffaello Sanzio, dal quale ereditò, per testamento, la bottega e le commissioni già avviate, assieme al collega Giovan Francesco Penni, con il quale collaborò a lungo. Fu un artista completo, come era normale per un qualunque artista di corte, che doveva occuparsi di ogni aspetto legato alla residenza e alla vita di rappresentanza del proprio signore, dovendo anche fornire modelli grafici per arazzi, opere scultoree e oggetti in argento, coordinando collaboratori e artigiani.

[5] Ludovico di Giovanni de’ Medici, detto Giovanni dalle Bande Nere (Forlì, 1498 – Mantova, 1526), era figlio del fiorentino Giovanni de’ Medici (detto il Popolano) e di Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì, una delle più famose donne del Rinascimento, che si era strenuamente difesa da Cesare Borgia nella sua rocca forlivese. Venne chiamato Ludovico in onore dello zio Ludovico il Moro, ma alla morte del padre, avvenuta quando aveva pochi mesi d’età, la madre gli cambiò il nome in Giovanni. Fu l’ultimo capitano delle compagnie di ventura e assistette al tramonto della cavalleria pesante. Fu ritenuto da Niccolò Machiavelli l’unico capace di difendere gli stati italiani dalla discesa di Carlo V.

[6] Paolo Procaccioli, Pietro Aretino, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 532.

[7] Paolo Procaccioli, ibidem, pag. 532.

[8] Paolo Procaccioli, ibidem, pag. 536.

[9] Paolo Procaccioli, ibidem, pag. 538.

[10] Marco Gerolamo Vida (Cremona, 1485 – Alba, 1566), figlio di Guglielmo e Leona Oscasale, appartenenti entrambi a famiglie patrizie cremonesi, venne battezzato con il nome Marco Antonio, che cambiò poi nel 1510 quando prese i voti religiosi definitivi. Ricevette un’ottima educazione, alla scuola del famoso umanista cremonese Nicolò Lucari e proseguì poi gli studi a Mantova, ove frequentò le lezioni dell’umanista Francesco Vigilio. Entrato nell’ordine dei Canonici regolari, nel 1505 tornò a Cremona e, con l’aiuto del vescovo Marco Antonio Sforza, ottenne alcune prepositure che gli permisero di dedicarsi alla poesia in lingua latina. Attorno al 1510 si recò nella Roma di Giulio II e, grazie alla protezione del cardinale Oliviero Carafa, poté avere i primi contatti con numerosi intellettuali e artisti, facendosi apprezzare come poeta. Nel 1518, dietro richiesta di Leone X, iniziò un poema in esametri latini sulla vita di Cristo, Christias, primo esempio di poema epico religioso. L’opera venne terminata nel 1530 pubblicata nel 1535 con dedica a Clemente VII, che ricompensò il Vida con la nomina a vescovo di Alba. Fra le opere minori debbono ricordarsi due poemetti didascalici in lingua latina (Scacchia ludus, sul gioco degli scacchi, e De bombyce, sulla coltura del baco da seta), una poetica in esametri (Poeticorum libri tres), un trattato dedicato al cardinale Reginald Pole (De reipublicae dignitate libri duo) e le le Synodales constitutiones, frutto della sua esperienza pastorale.

[11] Paolo Procaccioli, ibidem, pag. 542.

[12] Giuliano Innamorati, ARETINO, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962 – http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-aretino_(Dizionario-Biografico)/

[13] Nella lettera a Tiziano del 9 novembre 1537, l’Aretino parla del dono di un’Annunciazione, oggi perduta, fatto dal pittore all’Imperatrice Isabella, moglie di Carlo V.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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