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Marco Michelini | 18 Maggio 2021

Fra gli ultimi decenni del secolo XVI e la prima metà del secolo XVII, in una fittissima serie di saggi e di trattati precettistici si esplica il massimo sforzo dei pensatori politici del periodo della Controriforma e dell’età barocca di pervenire a una rifondazione dei valori dell’operare politico in funzione di una realtà nuova e mutata rispetto al passato. L’affermarsi delle monarchie assolute, il predominio spagnolo in Italia, cui succederà quello francese, e la progressiva perdita di autonomia degli stati italiani, per i quali si fa sempre più viva nel contempo l’esigenza di difesa e di conservazione; la potente offensiva spirituale e ideologica della Chiesa della Controriforma diretta a permeare dei propri ideali ogni aspetto dell’attività umana e ad affermare la superiorità assoluta dei valori morali e religiosi; la diffusa coscienza del tramonto dei valori e dei modelli tradizionali e di un necessario rinnovamento culturale costringono a una revisione critica del pensiero politico che nei cento anni precedenti si era consolidato in una tradizione altissima, sostanziata da una pratica politica esperta ed efficace. I teorici della «ragion di Stato», i commentatori di Tacito[1] (assunto come nuovo modello in sostituzione del Livio machiavelliano), gli storici e i moralisti, pur nella diversità degli atteggiamenti e nell’appartenenza a tradizioni politiche differenti, tenteranno pertanto di operare quella conciliazione fra politica e morale, fra Stato e Chiesa, che le forze politiche dominanti e i nuovi tempi richiedevano.

Al Machiavelli e alle sue spregiudicate teorie politiche, «solennemente condannate dalla Chiesa, si guarda un poco come ad oggetti demoniaci capaci di suscitare insieme un profondo orrore e un inspiegabile fascino»[2]. E poiché mai come in quel periodo la vita politica si era conformata a regole dettate da ragioni di astuzia e di forza, quegli stessi studiosi antimachiavellisti che si arrovellavano per ripudiare le massime del Principe, non erano poi in grado di escluderle dall’ambito pratico dell’esperienza umana. Per cui una cospicua componente del pensiero del Machiavelli, più o meno esplicita, permarrà come verità ineliminabile nelle loro teorie e nella prassi politica: si pensi a questo proposito all’utilizzazione di Tacito come veicolo delle idee machiavelliane. L’esperienza del «tacitismo», d’altra parte, non fu soltanto mero espediente, ma seppe offrire anche una sua elaborazione del problema politico nell’ambito più ampio della dottrina della «ragion di Stato»[3], così come seppe cogliere le suggestioni stilistiche della prosa tacitiana e riproporle alla sensibilità barocca.

La prorompente carica dinamica contenuta nella dottrina politica di Machiavelli, che poneva l’azione politica al culmine dell’operare ed esigeva il superamento di ogni principio dell’etica classica e cristiana, viene sostituita nella trattatistica dei pensatori politici del Seicento con le forze di segno opposto della «prudenza» e della «conservazione» assunte come valori fondamentali e criteri direttivi dell’attività politica. La «virtù», la tensione eroica del principe machiavelliano lasciano il posto alla prudente conservazione del principe cattolico.

L’elaborazione e la presa di coscienza di questo nuovo concetto di politica, subordinata ai valori superiori della religione e della morale e limitata nelle sue pretese di ridurre in sé la totalità del pensare e dell’agire, rappresentano uno degli aspetti più caratterizzanti e uno dei fattori dominanti della nuova cultura che si andava elaborando sul finire del secolo XVI e che si affermò durante il XVII. Se il pensiero politico dei diversi autori italiani del Seicento non si qualifica nel suo complesso per originalità e capacità di rinnovamento, trova tuttavia il suo momento originale e innovativo nell’aver ricondotto la politica allo stesso livello delle altre particolari attività umane, consentendo in tal modo un ampliamento del campo d’indagine della scienza politica che si estenderà d’ora in poi, in connessione con l’esigenza di analizzare positivamente i dati concreti della realtà sociale, alla società intera nella sua complessità, al rapporto fra Stato e cittadino, fra uomo e comunità umana, all’individuazione di un interesse collettivo operante nel determinare le finalità dello Stato. Così come un apporto nuovo sarà fornito dalla ricerca di quei valori morali e religiosi che potranno integrare, trascendere e giustificare l’utilitarismo, la forza e l’astuzia che l’azione politica e, più in genere, l’agire nel mondo comportano necessariamente.

Lo Stato assolutista, nazionalista, confessionale, mercantilista è dunque l’oggetto della riflessione di questi autori che, incerti e imprecisi rispetto al contemporaneo pensiero politico europeo e staccati dal processo di formazione del pensiero politico moderno, hanno saputo tuttavia cogliere quei valori, quelle istanze, quei fermenti nuovi di cui esso fu portatore e dai quali trarrà origine lo Stato moderno.

Paolo Paruta

«L’esigenza, e insieme la difficoltà, di conciliare la politica con la morale, la necessità della vita pratica e della ragion di stato con il sentimento religioso, s’intravedono già in un’opera del tardo cinquecento, e cioè nel Soliloquio autobiografico del veneziano Paolo Paruta»[4].

Il Paruta, primogenito di Giovanni e di Chiara Contarini, nacque a Venezia nel 1540. La famiglia era d’origine lucchese, aggregata nel 1381 alla nobiltà marciana in premio del generoso sostegno alla guerra di Chioggia. Compiuti gli studi di eloquenza e filosofia a Padova, Paolo Paruta ritornò a Venezia e vi aprì nel 1561 un’accademia privata di scienze politiche e morali. Parallelamente cominciò anche la sua carriera politica e nel 1563, fu al seguito degli ambasciatori straordinari inviati a Vienna a felicitarsi, per conto della Serenissima, con Massimiliano II[5] della sua incoronazione quale Re dei Romani (1562). Nel 1565 e nel 1566, fu eletto per due volte consecutive savio agli Ordini, la carica con la quale si avviava, per un patrizio in carriera, il cursus honorum. Tuttavia il Paruta, che nel 1567 aveva sposato Maria Morosini (dalla quale ebbe tre figli), decise di ritirarsi dalla vita politica per un quindicennio, dedicandosi ad un prolungato periodo di studio e riflessione. A questo periodo appartengono i Della perfettione della vita politica libri tre, che videro la luce dopo una elaborazione di almeno sette anni (1579).

Successivamente il Paruta di ripresentò sulla scena della politica attiva e nel 1580 il Consiglio dei Dieci gli conferì la prestigiosa carica di pubblico storiografo della Serenissima, che da un lato lo impegnò per tutto il resto della sua esistenza, dall’altro, non essendo esclusiva, fu compatibile con altre nomine e con successivi incarichi: provveditore alla camera dei prestiti (1580), savio alla Mercanzia (1585), provveditore alle biade (1587), membro del consiglio dei Sessanta (1588), provveditore sopra l’Artiglieria (1590), governatore di Brescia (1591), ambasciatore a Roma (1592-95), dove si fece apprezzare per abilità e prudenza diplomatica anche dal papa Clemente VIII che lo creò cavaliere, ed infine procuratore di San Marco (1596). Insomma, sembrava che la carriera politica del Paruta conducesse ormai verso il soglio dogale, ma la morte lo colse a cinquantotto anni, nel 1598.

Oltre ai già citati Della perfettione della vita politica libri tre, ove ricerca, secondo il modello dialogico ciceroniano, l’ideale del cittadino e dell’uomo di stato, e in cui riaffiora il vecchio contrasto tra la vita attiva e la contemplativa, il Paruta scrisse anche i due libri dei Discorsi politici, una storia della Guerra fatta dalla Lega de’ Principi Christiani contro Selino ottomano per occasione del Regno di Cipro, una Historia Vinetiana, che narra i fatti della Serenissima dal 1513 al 1551, e l’autobiografico Soliloquio.

All’interesse del Paruta non restano estranei quei problemi concreti della vita statale, principalmente quelli economici, che segnano un progresso sugli scrittori politici del Rinascimento; ma ancora più interessante è che, contrariamente al Machiavelli e al Guiciardini, egli senta la necessità «di difendere la vocazione politica contro i religiosi e i teorici dell’ascetismo, mettendo in rilievo la nobiltà e la perfezione di chi dedica la vita allo stato e cioè a procurare il benessere della moltitudine. L’opera del politico tuttavia in tanto riesce a giustificarsi moralmente ai suoi occhi, in quanto tende all’attuazione della felicità nella vita civile, felicità che si fonda sull’esercizio della virtù e trova la sua condizione necessaria e sufficiente in un governo libero, sottratto arbitrio personale del tiranno e sottoposto all’autorità astratta e imparziale della legge. La libertà è la premessa essenziale del vivere civile, senza di che “la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio”; la legge è il simbolo e la forma concreta della libertà: “chi commette il governo della città alla legge, la raccomanda a un Dio; chi lo dà in mano all’uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia”. Così, nel pensiero del Paruta, s’incontrano e armonizzano l’esperienza del veneziano, cittadino di repubblica, e il contenuto di una tradizione dottrinale, per cui egli può ancora una volta riproporre l’ideale ormai consunto di una forma di stato mista di monarchia, aristocrazia e democrazia, quell’ideale che era piaciuto da ultimo anche al Giannotti[6] e di cui Venezia sembrava offrire il vivo esempio nella realtà storica. Senonché l’accordo era possibile in quanto al Paruta, isolato nella sua esperienza regionale, sfuggiva in parte la complessa e dura realtà della politica europea contemporanea. Egli rimaneva per molti aspetti, nonostante il suo buon senso e il suo acume e lo zelo della sua attività pratica, un uomo del passato; il che si vede anche là dove, nei Discorsi politici, polemizza col Machiavelli, attribuendo la causa della grandezza romana e della successiva decadenza rispettivamente all’integrità e poi alla rilassatezza del costume morale, allo smodato desiderio di potenza, a prevalere dei ceti popolari più turbolenti; ovvero difende la politica cauta e moderata della sua Venezia nel periodo critico della storia italiana; o anche esalta il vecchio ideale quattrocentesco di pace e di giusto equilibrio fra i maggiori stati della penisola. Del resto, anche con questo suo conservatorismo ad oltranza, l’uomo del passato dà la mano al politico della controriforma, ed esprime lo spirito di una generazione ormai chiusa e rassegnata in una cerchia di aspirazioni mediocri e aliena da sogni troppo ambiziosi. Nel Paruta l’esigenza morale e religiosa non tanto viene ad un accordo, quanto piuttosto si giustappone, e da ultimo si sovrappone, all’esperienza politica, pur fortemente sentita e vissuta: non per nulla, concludendo e riassumendo la sua vita nel Soliloquio, egli dichiara ingenuamente il suo rammarico d’aver perduto troppo tempo a servire gli interessi del mondo e rivolge la sua mente a Dio. E pertanto tutta la sua opera diventa la testimonianza di una crisi, l’espressione di un momento di trapasso, vissuto da uno spirito sincero e nient’affatto superficiale. L’indole penosa e grave dell’uomo si rispecchia anche nello stile del trattatista e dello storico, che sta a mezzo tra il severo rigore dei politici e il calore contenuto e decoroso dei moralisti: stile semplice, ma dignitoso, e, dove lo sorregge il caldo amor di patria ovvero la ferma e nobile ispirazione etica, anche eloquente, senza cader nel rettorico»[7].

Ludovico Zuccolo

Nella discussione sul tema della «ragione di Stato» si distingue, per il suo tentativo alquanto originale di restituire al momento politico la sua autonomia, il letterato Ludovico Zuccolo, nato a Faenza nel 1568 da Alessandro, incriminato durante l’azione repressiva con la quale il S. Uffizio di Romagna, per ordine di Pio V, stroncò i consistenti focolai eterodossi. Morto il padre in carcere prima che la pena a cui venne condannato fosse resa effettiva, crebbe in ristrettezze economiche, tanto che per la sua povertà ebbe un incarico come lettore di filosofia all’Alma Mater di Bologna, dove si era immatricolato al corso di arti e dove si laureò poi in filosofia (1608). Successivamente soggiornò per nove anni, a partire dal 1610, alla corte urbinate di Francesco Maria II della Rovere, in qualità di segretario del duca e precettore del figlio Federico Ubaldo.

Nel 1615 pubblicò una raccolta di Dialoghi e in seguito, dopo avere abbandonato la corte d’Urbino, viaggiò tra la Dalmazia e Ancona, stabilendosi poi nuovamente a Faenza. Nel 1621 pubblicò a Venezia le Considerazioni politiche e morali sopra cento oracoli d’illustri personaggi antichi, nelle quali è compreso, come Oracolo XI, il breve scritto Della ragion di Stato, che costituisce la sua opera maggiore. Successivamente si recò a Venezia e nel 1623 a Madrid come segretario del nunzio apostolico Innocenzo Massimi, al quale dedicò un’edizione ampliata dei Dialoghi, che venne pubblicata a Venezia nel 1625. Sempre nel 1623 uscì a Venezia il Discorso della ragion del numero del verso italiano, nel quale l’autore offre un interessante contributo alla trattatistica barocca sulla poesia. Rientrato in Italia nel 1627, morì – forse a Bologna o forse a Faenza – nel 1630.

Per superare e risolvere il problema dell’antitesi fra politica e morale, che anima e impegna tanta parte della cultura del secondo Cinquecento e del Seicento, lo Zuccolo (che si avvale di una logica stringente e di uno stile sorvegliato nel quale spiccano la precisione e la sobrietà del linguaggio) definisce la «ragione di Stato» e la «politica» come due componenti distinte del problema politico, che, pur appartenendo a uno stesso ambito, riguardano oggetto e finalità diversi. La «politica» concerne lo Stato e il suo governo nel complesso ed è diretta a promuovere e ad assicurare per mezzo delle leggi sia il bene pubblico sia il bene privato (e ad essa pertanto inerisce la realizzazione di fini morali); la «ragione di Stato», invece, concerne esclusivamente la fondazione, l’accrescimento o la conservazione di un particolare Stato, storicamente individuato, e i mezzi che, in relazione alla forma istituzionale di esso, sono necessari alla realizzazione di tale fine. Zuccolo opera dunque una riduzione del concetto di «ragione di Stato», che connette organicamente con la forma di Stato in cui essa si esplica, e abbandona la pretesa di una definizione di essa che ne stabilisca in assoluto l’eticità o meno, la verità o la falsità. Se tale Stato opererà secondo onestà e giustizia, anche la «ragione di Stato» necessariamente avrà operato in questo senso e, in particolare, il proprio oggetto e la propria finalità concorderanno con quelli della politica: in questo caso assumerà il nome di «prudenza»; nel caso invece di uno Stato tirannico e ingiusto assumerà il nome di «avvedutezza».

Lo Zuccolo, pur riaffermando con originalità di pensiero l’autonomia della politica sostenuta dal Machiavelli, mantiene nei suoi confronti l’atteggiamento di condanna morale proprio della cultura del suo tempo (gli «scrittori iniqui ed empi, come il Machiavello e i seguaci suoi») e la riaffermazione di tale valore autonomo non lo induce a sviluppare e ad approfondire il discorso sullo Stato, che egli trasferisce invece nella dimensione dell’utopia (come tanti autori politici del Cinquecento e del Seicento). Nel dialogo Il Porto o vero della republica di Evandria, infatti, lo Zuccolo descrive uno Stato ideale fondato sulla libertà, sulla giustizia, sull’onestà, mentre nel dialogo Il Belluzzi o vero della città felice identifica la repubblica di San Marino con la città ideale da lui progettata.

Torquato Accetto

Nacque a Napoli, probabilmente attorno al 1600, da Baldassare e Delia Sangiorgi, ma molto povere sono le notizie biografiche che lo riguardano. Acquistò ancora giovane fama di poeta (una sua raccolta di Rime fu pubblicata a Napoli nel 1621 e riedita nel 1626 e nel 1638) nella cerchia di letterati e di intellettuali che gravitavano intorno all’Accademia degli Oziosi fondata dal letterato e mecenate napoletano Giovanni Battista Manso. Di modesta condizione sociale, Accetto fu segretario presso un’importante famiglia napoletana, incarico che lo distrasse, come lamenta spesso nei suoi versi, dalla prediletta attività poetica. Nel 1641 pubblicò il breve trattato Della dissimulazione onesta che, riscoperto e riproposto nel 1928 da Benedetto Croce, lo colloca fra le figure più interessanti e significative di quella riflessione morale, cui contribuiscono gli apporti della casistica gesuitica, del quietismo e anche di un’affinata introspezione psicologica, rivolta a teorizzare una filosofia della «prudenza» (alla quale sono congiunte necessariamente la pazienza e la simulazione) come virtù e norma etica fondamentale non solo dell’uomo politico, del principe, ma anche, più in generale, dell’uomo della Controriforma e del Seicento.

Torquato Accetto definisce la dissimulazione, distinguendola nettamente sia dalla menzogna, sia dalla simulazione, giudicate moralmente negative, come «un’arte di pazienzia, che insegna così di non ingannare come di non essere ingannato», come «una industria di non far vedere le cose come sono», come «un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo al tempo». La dissimulazione, ben lontana dal fondarsi sull’inganno e sulla falsità, è diretta a formare, attraverso l’esercizio della finzione, un abito morale e psicologico che consenta all’uomo di affrontare la vita, la sua illusorietà e la sua precarietà, così come di dominare se stesso e le proprie passioni, valendosi dello schermo difensivo dell’ambiguità, della moderazione, della cautela. Dunque la dissimulazione, il fingere, cioè, di non conoscere determinati fatti, è «onesta» in quanto non è intesa a negare la verità, ma è diretta al bene.

L’esercizio della dissimulazione, che in ogni caso non deve diventare comportamento abitualmente esplicito, assicura la quiete dello spirito, la difesa della propria interiorità, la consolazione per la miseria della condizione umana; esso tuttavia implica anche la coscienza che la dissimulazione rappresenta pur sempre un limite all’affermazione della verità, che Accetto pone come sommo bene al quale tendere. Tale limite è vissuto con angoscia e con dolore nella consapevolezza che potrà essere superato soltanto nell’eternità, nella perfezione di Dio in cui consiste la verità suprema.

L’opera, che svolge un discorso sempre pacato e garbato, è caratterizzata stilisticamente da una prosa sorvegliatissima e di nitore classico, che sfuma tuttavia in toni di chiaroscuro e, nell’adesione profonda al tema, tende a farsi a sua volta dissimulante. L’indulgenza al concettismo e al gusto per la metafora e per l’iperbole testimonia la sensibilità manieristico-barocca dell’autore.

Virgilio Malvezzi

Virgilio Malvezzi nacque a Bologna nel 1595 da Piriteo, barone di Taranta, e dalla sua seconda moglie, Beatrice Orsini; la famiglia era di antica nobiltà, ed i suoi membri si erano distinti al servizio del papato e della monarchia spagnola, sia nella carriera delle armi, sia negli uffici pubblici. Nel 1613 conseguì il dottorato in utroque iure presso l’Università di Bologna e nel 1614 seguì a Siena il padre, che era stato nominato governatore al servizio del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici[8]. A Siena divenne amico intimo dell’umanista Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII[9].

Nel 1622 il Malvezzi iniziò la sua attività di intellettuale e di letterato pubblicando a Bologna i Discorsi sopra Cornelio Tacito. Dal giugno 1624 ai primi del 1625 soggiornò a Roma, quindi si arruolò, seguendo la tradizione familiare, nell’esercito spagnolo e partecipò alle guerre di Fiandra e di Piemonte; ma dopo un solo anno, a causa di problemi di salute, abbandonò la carriera militare per fare ritorno a Bologna. Nel 1629 pubblicò, sempre a Bologna, il Romulo, una biografia romanzata del leggendario fondatore di Roma nella quale, come in altre opere dello stesso genere, condensa i frutti della sua riflessione etico-politica. Successivamente, sempre a Bologna, diede alle stampe (1632) il Tarquinio Superbo, con grande successo. Nel 1634 pubblicò, in cinque diverse città, il Davide perseguitato, dedicato a Filippo IV[10], cosa che gli permise di intensificare i già iniziati rapporti con la Spagna, avviando una fitta corrispondenza con l’ambasciatore spagnolo a Venezia. Di questo periodo è la stesura del Ritratto del privato politico cristiano, pubblicato a Bologna nel 1635, che – costruito su materiali fornitigli dallo stesso ambasciatore – è la biografia di Gaspar de Guzmán conte duca di Olivares[11], il potente primo ministro del re Filippo IV, grande fautore dell’assolutismo regio.

A causa di una contesa armata con la famiglia Ghislieri, della quale erano colpevoli i nipoti Ludovico e Sigismondo, il Malvezzi, pure innocente, venne condannato all’esilio e i suoi beni furono confiscati. Nel 1636 si imbarcò quindi a Genova alla volta di Madrid, dove la sua lealtà alla monarchia spagnola gli guadagnò la stima e la protezione del conte‑duca d’Olivares. Alla Corte spagnola gli vennero affidati importanti incarichi: fu nominato storiografo della monarchia di Spagna, ambasciatore a Londra nel 1640, consultore del governatore dei Paesi Bassi, consigliere di Stato.

Caduto in disgrazia l’Olivares nel 1643, Malvezzi si offrì lealmente di seguirlo in esilio, ma fu trattenuto in Spagna da Filippo IV, al cui servizio rimane fino al 1646. Frattanto, nel 1641, era uscita ad Anversa l’opera storica Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639. Dopo alcuni soggiorni a Genova e a Roma, rientrò infine a Bologna, dove fu eletto Gonfaloniere, e trascorse gli ultimi anni dedicandosi alla stesura di alcune opere storiche. Morì Castel Guelfo nel 1654 e fu sepolto in S. Giacomo Maggiore a Bologna, senza aver potuto vedere l’elezione al soglio pontificio del suo amico di una vita, Fabio Chigi.

Le opere del Malvezzi ebbero larghissima fama fra i contemporanei in Italia, in Spagna, in Francia e nel resto d’Europa; la riflessione morale contenuta in esse pone lo scrittore accanto ai grandi moralisti del secolo e ne estende l’appartenenza all’ambito della cultura europea. Animato da una profonda religiosità, fu cattolico fervente e devoto, e da un ideale aristocratico di vita e di cultura, sostenitore strenuo dell’assolutismo regio e della Chiesa, fautore della prudenza e della misura come norme di vita e dell’agire politico, Malvezzi dimostra tuttavia in molteplici occasioni indipendenza di giudizio, libertà mentale e gusto moderno: antimachiavelliano sincero, sa riconoscere validità all’insegnamento di Machiavelli di cui critica la tesi dell’imitazione degli antichi, nell’ambito di un radicale rifiuto dell’autorità della tradizione e dei modelli e di una ferma opposizione alla precettistica in arte.

Malvezzi osserva l’uomo e il mondo con lo sfiduciato pessimismo che gli deriva dalla sua stessa religiosità e con l’amarezza dell’aristocratico che vede tramontare i valori e gli ideali in cui ha creduto: l’uomo, macchiato dal peccato, è irrimediabilmente rivolto al male, dominato dall’ambizione, dall’interesse, dalla sete di guadagno e di gloria, perennemente insoddisfatto e inquieto, si agita in un mondo instabile e mutevole nel quale le sue azioni, anche se ispirate a grandezza di ideali e mosse da eroico entusiasmo (come avviene per l’uomo politico), sono vanificate dalla caducità delle cose, dal mutare della fortuna, dal dominio dell’imprevisto, che sconvolge progetti e risultati appena acquisiti. In tanta inquietudine e provvisorietà uniche certezze sono rappresentate dal valore dell’esperienza, sola norma valida per dirigere l’azione, dalle istanze della propria coscienza, in cui Dio ha posto un limite alla capacità dell’uomo di fare il male e, infine, dalla morte, «pietra angolare» del mondo.

La prosa di Malvezzi rispecchia esemplarmente l’ideale aristocratico che ne anima il pensiero, essa è l’espressione di un concettismo barocco estraneo alle suggestioni dell’«acutezza», dell’«ingegnosità», e diretto invece a raggiungere risultati espressivi di estrema essenzialità e sinteticità, che, in funzione del pensiero, sappiano concentrare nel breve e denso spazio della massima e della sentenza l’energia e la tensione intellettuale, la drammatica formulazione della verità. Lo stile è lapidario, «laconico», di modello senechiano e tacitiano (Malvezzi fu detto il Seneca italiano), caratterizzato da periodi brevi e concisi, composti e strutturati con raffinato e sapiente esercizio degli strumenti retorici. Considerato dai contemporanei maestro del concettismo e della prosa «senechiana», Malvezzi esercitò grande influenza sugli scrittori spagnoli appartenenti al «cultismo»[12].

***NOTE AL TESTO***

[1] Publio Cornelio Tacito (55/58 ca – 117/120 ca), di rango senatorio, fu console nel 97. Fu autore di numerose opere: nel De vita et moribus Iulii Agricolae, elogia il suocero Gneo Giulio Agricola e le sue imprese militari in Britannia; nel trattatello De origine et situ Germanorum manifestò il suo interesse etnografico sull’origine, i costumi, le istituzioni, le pratiche religiose e il territorio delle popolazioni germaniche; nelle Historiae, prima grande opera storiografica (di cui ci restano i primi quattro libri e l’inizio del quinto), tratta la storia di Roma dall’anno dei quattro imperatori (69) all’assassinio di Domiziano (96); negli Annales (che ci sono giunti anch’essi non completi) tratta la storia di Roma dalla morte di Augusto (14) alla morte di Nerone (68) e analizza la genesi del potere imperiale, rivelando un profondo pessimismo storico e un rimpianto per l’austera moralità repubblicana. Il suo stile, scarno e spezzato, proverbialmente conciso, ha una drammatica espressività.

[2] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 236.

[3] La ragione di Stato è l’insieme delle priorità attinenti alla sopravvivenza e alla sicurezza dello Stato, che inducono il sovrano, o comunque colui che detiene il potere politico, a consolidare e ad incrementare senza tregua la propria potenza, giungendo a giustificare – per ottenere tale scopo – qualsiasi azione illecita sotto il profilo del diritto e dell’etica.

[4] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 241.

[5] Massimiliano II d’Asburgo (Vienna, 1527 – Ratisbona, 1576) era il primogenito dell’Imperatore Ferdinando I e Anna Jagellone, trascorrendo la sua infanzia nella casa dei genitori a Innsbruck. Godette di una formazione eccellente e imparò diverse lingue europee. Nel 1543 cominciò ad intrattenere contatti epistolari con il protestante Augusto, elettore di Sassonia, fatto che venne visto dalla famiglia con sospetto. Per distoglierlo dalle concezioni protestanti e per favorire il suo impegno militare, suo zio Carlo V lo portò a soli 17 anni sul campo di battaglia. Massimiliano accompagnò l’Imperatore a Bruxelles e nella Guerra di Smalcalda, combattendo nella Battaglia di Mühlberg. Nel 1548 suo zio lo diede in sposa alla propria figlia, Maria, per rafforzare la coesione tra la linea degli Asburgo di Spagna e quella degli Asburgo d’Austria. Poiché continuavano le sue simpatie verso il protestantesimo i rapporti con il padre si fecero difficili e tesi e solo nel 1562 si venne a un accordo, per cui Massimiliano ebbe il consenso del papa a comunicarsi secondo il rito cattolico e quello protestante, impegnandosi da parte sua a inviare i suoi due figli, Rodolfo e Mattia, alla Corte di Spagna e a non abiurare la confessione cattolica. Fu allora eletto e incoronato re di Boemia e dei Romani (1562), nonché re di Ungheria (1563). Nel 1564, alla morte del padre, salì al trono, mantenendo un atteggiamento conciliante verso il protestantesimo, ma avversando nettamente i calvinisti. Verso i Turchi si prefisse la conservazione dello statu quo e il mantenimento della pace. Per tali ragioni continuò a pagare il tributo annuo al Sultano e rifiutò di entrare nella Lega Santa del 1571. Nel 1576 alla dieta d’Augusta promosse e ottenne l’elezione del figlio Rodolfo a re dei Romani e a suo successore.

[6] Donato Giannòtti (Firenze 1492 – Roma 1573) era figlio dell’orafo Lionardo e di Alamanna Gherardini. Studiò dapprima con Marcello Virgilio Adriani, discepolo del Landino e del Poliziano, poi con Francesco Cattani da Diacceto, i cui insegnamenti esercitarono un’influenza durevole sul Giannotti. Altro momento decisivo della sua formazione fu la partecipazione al secondo periodo (1512-22) dei celebri incontri degli Orti Oricellari, dominato dalla figura di N. Machiavelli. Nel 1521 fu nominato insegnante di retorica, poetica e lettere greche all’Università di Pisa e ricoprì tale incarico almeno fino al 1525. Cacciati i Medici e instaurata per la seconda volta la repubblica (1527), divenne segretario dei Dieci della libertà e pace, occupando quel posto che era stato del Machiavelli e venendo a gestire un grande potere, con compiti gravosi. Dopo la capitolazione di Firenze (1530) e il ritorno dei Medici, fu imprigionato, avendo a stento salva la vita. Condannato a tre anni di esilio, si diresse a Prato, dove visse precariamente. Nel 1536 ottenne l’amnistia. Successivamente passò al servizio dei cardinali Ridolfi e de Tournon, poi di Pio V. Repubblicano convinto, vagheggiò per Firenze un governo misto, simile a quello di Venezia. Scrisse trattati storici e politici (Discorso sopra il formare il governo di Firenze, 1527; Della repubblica fiorentina, 1531; Libro de la repubblica de Vinitiani, 1540; Discorso delle cose d’Italia, 1535; Epitome historiae ecclesiasticae, 1549), alcune poesie e commedie. (N.d.R.)

[7] Ibidem, pag. 241‑243.

[8] Cosimo II de’ Medici  (Firenze, 1590 – Firenze, 1621) era il figlio era il figlio primogenito del granduca di Toscana Ferdinando I e di sua moglie Cristina di Lorena. Fin da piccolo ricevette un’educazione moderna e scientifica, improntata a fornirgli ampie conoscenze in tutti i campi. Studiò anche diverse lingue, quali il tedesco ed il castigliano, che parlava fluentemente. Tra il 1605 ed il 1608 ebbe come precettore Galileo Galilei, con il quale Cosimo instaurò una profonda amicizia, durata tutta la vita. Nel 1608, per volere del padre, che cercava di mantenere un equilibrio tra Francia e Spagna, sposò Maria Maddalena d’Austria, sorella della regina di Spagna. Nel 1609, con la morte del padre, salì al trono, ma essendo già minato dalla tubercolosi delegò gran parte degli affari di Stato al primo ministro Belisario Vinta e a molti dei propri familiari. In politica estera egli cercò di destreggiarsi tra Spagna e Francia, nel tentativo di non entrare in nessun conflitto, ma con scarsi risultati. Il suo governo, comunque, fu saggio ed intelligente ed assicurò alla Toscana un periodo di benessere economico e di crescita demografica.

[9] Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (Siena, 1599 – Roma, 1667) era il settimo figlio del conte Flavio Chigi Ardenghesca e di Laura Marsigli. Ricevette un’ottima istruzione da un precettore privato, poi studiò all’Università di Siena, dove conseguì tre lauree. Ordinato sacerdote nel 1634 e nominato vescovo di Nardò, rimase nella diocesi fino al 1639, quando fu nominato nunzio straordinario a Colonia. Papa Innocenzo X nel 1652 lo creò cardinale e lo nominò segretario di stato. Eletto Pontefice nel conclave del 1655 indisse subito un giubileo universale per un saggio governo. Un secondo giubileo fu proclamato nel 1656 per invocare il soccorso divino, e un terzo, con le stesse intenzioni, fu indetto nel 1663. In continuità con i suoi predecessori, ribadì la condanna del giansenismo. Successivamente l’assemblea generale del clero francese, con l’approvazione del pontefice e di re Luigi XIV, approvò un formulario di sottomissione. Incoraggiò l’architettura e le arti in genere, divenendo uno dei pontefici più attivi nel compiere il rinnovamento della città di Roma, e a lui si devono molte delle opere in stile barocco della città eterna. Fondò la biblioteca dell’Università di Roma La Sapienza, che fu inaugurata nel 1670.

[10] Filippo IV d’Asburgo (Valladolid, 1605 – Madrid, 1665) era il figlio primogenito di Filippo III e di sua moglie, Margherita d’Austria-Stiria. All’età di dieci anni, sposò Elisabetta di Francia, dalla quale ebbe sette figli, ma il suo unico figlio maschio morì prematuramente a sedici anni (1646). Risposatosi dopo la morte della prima moglie con Marianna d’Austria, sua nipote e figlia di Ferdinando II d’Asburgo, dalla quale ebbe altri tre figli:  Margherita Teresa, Filippo, che morì in tenera età, e il futuro Carlo II di Spagna, il quale era continuamente malato e in pericolo di vita, il che rendeva la sua successione incerta. Salito al trono nel 1621, durante il suo regno l’Impero spagnolo raggiunse il suo zenit territoriale, ma le mancate riforme della politica interna e di quella militare contribuirono ben presto a farlo entrare in declino. Come il padre, si avvalse dell’opera di favoriti, come il conte duca di Olivares che impegnò ancora il paese in una disastrosa politica imperialista, riaprendo il conflitto nei Paesi Bassi e continuando la guerra dei trent’anni. Durante il suo regno ci furono rivolte in Catalogna, a Napoli e in Portogallo.

[11] Gaspar de Guzmán y Pimentel Ribera y Velasco de Tovar, conte di Olivares e duca di Sanlúcar (Roma, 1587 – Toro, 1645) era figlio di  Enrique de Guzmán y Ribera II conte di Olivares, che esercitava l’incarico di ambasciatore a Roma, e di María Pimentel de Fonseca. Alla morte della madre (1599) fece ritorno in Spagna con il padre e studiò all’Università di Salamanca. Nel 1615  re Filippo III lo incaricò di assistere il principe ereditario, riuscendo in breve tempo ad accattivarsi la sua fiducia e simpatia. Salito al trono Filippo IV, ottenne dal re il titolo di duca e la nomina a primo ministro. Durante il suo governo, tentò di adottare riforme fiscali e amministrative ma ottenne successi limitati, mentre la politica estera fortemente aggressiva ed il coinvolgimento nella Guerra dei trent’anni lo costrinsero ad aumentare la tassazione. Il peso del fisco e la centralizzazione portò a diverse rivolte quali la Sollevazione della Catalogna e la Guerra di restaurazione portoghese che non fu in grado di reprimere per via degli appoggi francesi. Questi insuccessi, uniti anche alla sconfitta nella Battaglia di Rocroi, portarono alla sua caduta (1643).

[12] Il cultismo o culteranesimo è una tendenza letteraria spagnola del Seicento, caratterizzata dall’uso di un linguaggio raffinato e colto per mero gusto di bizzarria e di oscurità.


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