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Marco Michelini | 14 Settembre 2022

Linea Biografica

 

Nacque a Savona nel giugno del 1552 quindici giorni dopo la morte del padre, un gentiluomo di piccola e antica nobiltà che aveva sposato Gironima Murasana, figlia di un noto giurista. Dopo che la madre ebbe contratto ben presto un nuovo matrimonio, il piccolo Gabriello venne affidato alla tutela degli zii paterni, Giovanni e Margherita, che non avevano figli; per cui nel 1561 fu condotto a Roma, dove lo zio Giovanni esercitava un’attività bancaria alquanto redditizia. Dopo aver ricevuto una prima istruzione da un istitutore privato, il ragazzo fu affidato alle cure dei padri gesuiti del Collegio Romano, che ne influenzarono definitivamente il carattere e le inclinazioni, conquistandolo agli ideali controriformistici e suggerendogli un conforme stile di vita.

Nel 1572, dopo la morte dello zio Giovanni, fece per pochi mesi ritorno a Savona e successivamente – ritornato a Roma – entrò alla corte del cardinale Luigi Cornaro[1], ove conobbe Sperone Speroni e Marc-Antoine Muret[2], che lo indirizzano verso il gusto della poesia classica, in special modo quella greca. Tuttavia, a seguito di alcuni dissidi con un nobile romano, dovette lasciare Roma (1576) e fece ritorno a Savona, da cui fu pure ripetutamente cacciato, essendo coinvolto in omicidi e in risse nel 1579 e nel 1581. Compiuti i trent’anni, Chiabrera mitigò i furori giovanili e iniziò una vita tranquilla da letterato, ricoprendo incarichi pubblici e inserendosi nel mondo delle corti.

Entrato in contatto con la corte di Torino, nel 1582 diede alle stampe – con dedica a Carlo Emanuele I di Savoia – Delle guerre de’ Goti (detta Gotiade), un poema epico di quindici canti in ottave, che narra la guerra tra Narsete e i Goti, sotto la quale è adombrata la lotta della cattolicità contro i riformatori d’oltr’alpe. Nonostante la diretta discendenza dal Trissino, La Gotiade, fu accolta in modo largamente positivo, e già a partire dal 1586 egli poteva saggiare l’accoglienza di un pubblico ben più vasto alle sue Canzoni (Genova 1586, 1587 e 1588, in numero rispettivamente di dodici, sei e sei), indirizzate a personaggi illustri e dedicate alla celebrazione di principi, defunti eminenti e santi. Scrisse anche la tragedia Ippodamia – che venne pubblicata postuma – e il famoso poema in ottave Amedeide che, iniziato nel 1590, venne poi stampato solo nel 1620, dopo quattro diverse stesure.

Dal 1600 fu al servizio dei granduchi di Toscana, i quali lo stipendiarono fino alla morte senza obbligo di residenza a corte, e a Firenze, in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Maria de’ Medici[3] con Enrico IV di Francia, scrisse quello che può essere considerato il primo melodramma: Rapimento di Cefalo[4]. Alla corte medicea il Chiabrera maturò quella predilezione per il capoluogo toscano che diventò per lui emblematica come se di per sé corrispondesse ad una opzione polemica per il classicismo e che fu invece significativa proprio per l’esemplare tessuto di società che in Firenze egli credette di riconoscere: la società colta e sensibile nella quale era potuta nascere l’illusione raffinata di un nuovo sodalizio tra musici e poeti, alla maniera dei Greci.

Frattanto nel 1597 era venuta a mancare la sorella Laura, che si occupava di lui. Chiabrera passò attimi di smarrimento che né la buona salute di cui godeva, né le poche preoccupazioni che gli derivavano dagli incarichi pubblici, né tantomeno la rigida programmazione della sua esistenza, gli avrebbero fatto presentire. Cercò di uscire da tutto questo nel 1602, riducendosi ormai cinquantenne al matrimonio con una sua cugina sedicenne, Lelia Pavese. Con queste nozze, che sarebbero rimaste infeconde e che gli costarono non pochi rammarichi, coincise una nuova disavventura giudiziaria, che, a causa della condanna per pasquinate di un suo fratello naturale, gli fece perdere tutti i suoi averi in Roma. Con l’interessamento ed il favore di alcuni amici[5] riuscì comunque a rientrare in possesso dei propri beni ed a vivere agiatamente ed isolatamente in patria.

L’elezione al soglio pontificio dell’amico e compagno di studi Maffeo Barberini, con il nome di Urbano VIII (1623), papa letterato e mecenate che voleva dare al papato una nuova linea culturale, fece raggiungere al Chiabrera l’apice della carriera. Urbano VIII, come prima cosa, mise all’Indice l’Adone del Marino e sgomberò il campo a tutti quegli intellettuali che, come appunto Chiabrera, avevano una formazione gesuitica e classica. E tale linea politica di stampo moralista – del tutto in linea con la Controriforma – verrà proseguita dai pontefici negli anni successivi e culminerà, come s’è già detto, con l’abiura di Galileo.

Nel 1628 scrisse le Canzoni per Urbano VIII e il poemetto Le feste dell’anno cristiano, dopo di che si ritirò definitivamente in Liguria, dove entrò a far parte dell’Accademia degli Addormentati di Genova. Negli ultimi anni della sua operosa vecchiaia, il Chiabrera lesse all’Accademia sette Discorsi (1629) e compose ancora molte opere, quasi tutte stampate post mortem: il poema in sciolti Ruggiero e il poemetto Foresto (stampati nel 1653), le liriche bacchiche e sperimentali dei Sollazzi (composte nel 1635-36), molti poemetti, la Vita (una autobiografia che si porrà come un modello di sublimazione intellettuale del vissuto, composta nel 1633-38), nonché numerose prose dedicate al patriziato genovese, stampate intorno agli anni Trenta; accorciò, inoltre, l’Amedeide riportandola alle dimensioni della prima stesura e rielaborò per la terza volta il poema Firenze.

Morì Savona, nel 1638, all’età di ottantasei anni, ed il suo corpo fu sepolto nella cappella di famiglia, nella chiesa di S. Giacomo de’ Riformati di S. Francesco.

 

Opere

 

Parallelamente al diffondersi del marinismo e alla sua affermazione, si manifestò la reazione a quel movimento, che costituiva l’aspetto più originale della poesia seicentesca. Pur restando all’interno di una ricerca di nuovi moduli espressivi, e in questo dunque simili al Marino, gli antimarmisti, rivolgendosi al passato classico, tentarono di riproporre l’ode pindarica e oraziana e la canzonetta anacreontica, sulle orme del Ronsard[6] e degli altri poeti francesi del movimento della Plèiade[7], formatosi in Francia attorno al 1549.

Questa esperienza classicista, che verrà poi definita come classicismo barocco, è rappresentata esemplarmente da Gabriello Chiabrera che, «non diversamente dal Marino, dichiarava di voler “trovare un nuovo mondo o affogare”, come Cristoforo Colombo, ed era convinto che la poesia fosse “obbligata a far inarcar le ciglia”; senonché, per il raggiungimento di scopi siffatti, egli contava sull’effetto del sublime e dell’eroico di parata, anziché su quello dell’ingegno e del sorprendente, sulla solennità oratoria più che non sulla lussuria dell’immaginazione; anche se poi veniva ad incontrarsi con i marinisti (specie nelle canzonette) nella tendenza a dissolvere i valori logici e affettivi della parola in un indistinto fluido canoro, nel che si faceva evidente la loro comune origine dal Tasso»[8].

Autore fecondissimo, compose drammi pastorali e melodrammi: Il rapimento di Cefalo, Il pianto d’Orfeo[9], Alcippo, Amore bendato, La pietà di Cosmo, Meganira; poemi eroici: Delle guerre de’ goti e Amedeide; tragedie: Erminia, Ippodamia; egloghe in terza rima; ditirambi; poemetti didascalici e sacri; i trenta Sermoni, ed altre. Ma la sua fama è legata soprattutto alle Canzoni eroiche ed encomiastiche (in cui prende a modello Pindaro, riproducendo un “eroico” del tutto esteriore), a Le maniere de’ versi toscani e alle Canzonette.

Nello scontro – se così possiamo dire – con il Marino, in tutto e per tutto uomo del barocco, «il Chiabrera fu pur letterato e uomo di corte, ma in un rapporto di più sicura dignità con i suoi mecenati, meno avventuriero e meno avido di fastosa affermazione, più legato all’idea di una letteratura encomiastica, ma desideroso di farsi diretto collaboratore di civiltà e insieme strumento di personale conforto e di dominio delle passioni. In questa direzione più ambiziosa e alta il Chiabrera […] compose le sue Canzoni appoggiate all’esempio di Pindaro e di Orazio e tese alla ricerca di una magniloquenza educativa ed esortatoria, non priva di sentimenti sinceri e storici, sollecitati dalla consapevolezza della decadenza italiana e dall’aspirazione ad educare nuove generazioni più virili ed eroiche (come avviene nella canzone sul giuoco del pallone, dove l’esercizio sportivo è pindaricamente assunto come forma di educazione al valore morale ed eroico), ma certamente più letterariamente e tecnicamente decorose e abili che poeticamente valide. Elaboratore di metri ripresi da quelli classici latini e greci, il Chiabrera fu soprattutto un letterato esperto e consapevole e come tale fu importante sostenitore di una specie di modernità e novità ottenuta per mezzo della ripresa della gloriosa tradizione classica in opposizione ai modi più avventurosi e antitradizionalistici della lirica barocca. Ma più, con minor pericolo di stento e fatica (quale derivava dalla sua stessa difficile operazione di innesto fra modi antichi e sentimenti moderni), il Chiabrera risulta nell’altra direzione della sua poesia (le Canzonette), anch’essa appoggiata ad un ideale modello antico: Anacreonte[10], mediato e come già più modernizzato attraverso la ripresa che ne avevano fatto nel Cinquecento i poeti francesi della Pléiade, conosciuti e amati dal nostro scrittore. Quest’altra direzione è volta a cantare in rapide e agili strofette (fatte di metri brevi e di giuochi musicali di rime e assonanze) belle immagini femminili, colte nel loro fascino più labile e squisito (si pensi alla canzonetta Riso di bella donna), rapide vicende e situazioni erotiche, affascinanti e aggraziati spettacoli naturali»[11]. L’ispirazione autentica e il sentimento poetico non sembrano essere i pregi di queste composizioni, che risaltano invece per una sorta di musicalità poetica realizzata attraverso una levità fonica e una squisitezza lessicale. Si tratta di una poesia che affida il suo valore ad un puro aspetto formale, servendosi di un linguaggio estremamente prezioso, ma mai appariscente; un unico fluire omogeneo e vago, dunque, che ricrea, anche lì dove si propongono temi tristi, un’atmosfera brillante e gaia di delicatezza e di rarefazione sentimentale, per quella grazia leziosa e fiabesca e quella possibilità evocativa e allusiva che da essa sembra nascere.

L’esperienza del Chiabrera è, comunque, tipica soprattutto per quella sua sperimentazione metrica, esercitata con estrema eleganza e sensibilità, altamente considerata presso gli Arcadi, restauratori del buon gusto e della ragionevolezza classicistica, e che resisterà con tenacia fino ai giorni nostri ed influenzerà la nostra letteratura in modo determinante attraverso Parini, Monti, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci, D’Annunzio, ma anche attraverso i suoi detrattori[12].

Gran parte della “rivoluzione metrica classicista” operata del Chiabrera persegue innanzitutto l’uso del verso sciolto nei poemi epici al posto dell’ottava ariostesca e tassiana. L’endecasillabo sciolto era stato inventato nel Cinquecento dal Trissino, come s’è visto, per emulare l’esametro classico e, sebbene fosse destinato a divenire uno dei metri principali della tradizione italiana, al momento della sua invenzione fu considerato stilisticamente basso e come tale adatto al teatro ma non per i poemi epici, a meno che non fossero traduzioni come quella di Annibal Caro. Il Chiabrera, invece, si impegnò a fondo nel processo di nobilitazione del verso sciolto e contribuì a trasformarlo in uno dei metri più importanti della poesia italiana.

Per il melodramma il Chiabrera si affianca a quanto già sperimentato dal Rinuccini[13] cioè endecasillabi e settenari liberamente disposti e liberamente rimati, intervallati da brevi cori in versi brevi; la stessa formula, sebbene molto più sciolta nella scorrevolezza formale, è usata anche nelle tragedie. Per quanto riguarda, invece, i drammi pastorali (che non presentano cori) il poeta è fedele in parte alla tradizione e in parte rinnova: la Gelopea è in endecasillabi e settenari non rimati; la Meganira e l’Alcippo invece sono in endecasillabi e settenari liberamente rimati. Ma è nelle odi che il Chiabrera si mostra ancora più classico, sia nel lessico, sia nella libertà d’invenzione metrica, sia nella sintassi, sia nell’impianto: nel 1624, infatti, egli giunge a ristrutturare daccapo la canzone italiana sul modello di Pindaro[14] e di Orazio[15], dividendola in una sequenza ripetuta di tre strofe ad imitazione della strofe, dell’antistrofe e dell’epodo dell’epinicio[16] classico. La migliore espressione di questa parte della lirica chiabreresca possono essere considerate le Canzoni per Urbano VIII.

È chiaro dunque che per quanto il Chiabrera fosse soprattutto un metrico e che la sua influenza si eserciti principalmente in tale ambito, va riconosciuto il fondamentale peso ch’egli ebbe nell’inventare un tipo morale e intellettuale di poeta destinato a una lunga fortuna nella nostra cultura. «Dicendo “metrico”, si pensa però non soltanto alla varietà e alla ricchezza delle combinazioni da lui usate (sia che le riprendesse dalla melica cinquecentesca e seicentesca, ovvero dai francesi o dai latini, o sia che le escogitasse a nuovo), bensì anche alla sensibilità e alla delicatezza ch’egli adoperò nel crearle e maneggiarle e adattarle all’indole della nostra lingua e della nostra poesia. Veramente in questa lunga e amorosa disciplina di esercizio tecnico egli mise, oltre la sua ingegnosità, tutta intera la sua anima; e qui è anche il suo merito, e la sua funzione nella storia della nostra letteratura»[17].

 

***NOTE AL TESTO ***

 

[1] Alvise Corner, italianizzato in Luigi Cornaro (Venezia, 1517 – Roma, 1584), era figlio del senatore veneziano Giovanni Cornaro e pronipote della regina di Cipro Caterina Cornaro. Entrato nell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, fu nominato gran commendatore di Cipro, ma rinunciò alla carica a favore del fratello. Venne creato cardinale diacono di San Teodoro nel concistoro del 20 novembre 1551 da papa Giulio III. Dal 10 maggio 1570 fino alla morte fu camerlengo di Santa Romana Chiesa, carica che acquistò pagando 70.000 scudi che papa Pio V destinò a finanziare la guerra contro l’impero ottomano. Il Cornaro stesso fu uno dei più attivi promotori della Lega Santa, vittoriosa nella battaglia di Lepanto del 1571.

[2] Marc-Antoine Muret (Muret, 1526 – Roma, 1585), filologo e umanista francese naturalizzato italiano, fu sostanzialmente autodidatta finché non venne in contatto con il celebre umanista Giulio Cesare Scaligero, che gli fu guida spirituale e culturale al punto che Muret lo definì proprio padre. Proprio su pressione di Scaligero, ad appena 18 anni Muret fu invitato a commentare Cicerone e Terenzio presso il collegio arcivescovile di Auch. Si spostò quindi a Villeneuve d’Agen, dove si prese carico dell’istruzione del figlio di un ricco mercante, per essere poi incaricato dell’insegnamento del latino nel collegio cittadino. Successivamente, fu a Bordeaux, dove fu precettore di Montaigne. Attorno al 1552 si trasferì a Parigi, ove pronunciò una serie di lezioni sulla filosofia e sul diritto civile, che attirarono un enorme pubblico, compreso re Enrico II di Francia. Fu accusato di sodomia e di eresia, quando era ormai all’apice del successo, e rinchiuso nelle prigioni di Châtelet. Riottenuta la libertà, si recò a Tolosa, ove insegnò diritto, ma fu accusato nuovamente e per non dover affrontare un nuovo processo fuggì in Italia. Fu dapprima a Venezia, poi a Padova, poi alla corte di Ferrara, dove insegnò eloquenza e filosofia, poi a Roma per invito di Gregorio XIII, che gli concesse alti onori. Nel 1576 entrò nello stato ecclesiastico e vi rimase con profondo spirito di devozione. Infaticabile editore di testi classici, scrisse anche dei versi oraziani.

[3] Maria de’ Medici (Firenze, 1575 – Colonia, 1642), figlia di Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, e di Giovanna d’Austria, arciduchessa d’Austria, figlia dell’Imperatore Ferdinando I e di Anna Jagellone, rimasta orfana di madre a 5 anni e di padre a 12 anni, trascorse un’infanzia solitaria e triste. Dopo l’assassinio di Enrico IV (1610) assunse la reggenza a nome di suo figlio, Luigi XIII, di soli otto anni. La politica estera di Maria fu determinata da una forte alleanza con la monarchia spagnola ed orientata quindi più verso il cattolicesimo che il protestantesimo. Ciò portò al matrimonio di suo figlio Luigi con l’infanta Anna d’Austria, e e quello di sua figlia Elisabetta con l’infante Filippo, futuro Filippo IV di Spagna, (entrambi nel 1615). Nell’aprile del 1617 suo figlio, Luigi XIII, la esautorò e fu costretta a ritirarsi nel castello di Blois, ma Nel 1622 fu comunque riammessa a far parte del Consiglio di Stato. Ricorrendo a tutta la propria influenza, sostenne l’avanzata del duca di Richelieu, che fu nominato cardinale nel 1622 ed entrò a far parte del Consiglio reale nel 1624. Ma la politica di Richelieu, finalizzata com’era a una contrapposizione verso i protestanti sul fronte interno, ma ostile all’impero sul fronte estero, si rivelò ben presto contraria al tradizionale indirizzo filoasburgico di Maria e rovesciò tutte le alleanze spagnole fino ad allora consolidate. Maria cercò di opporsi in ogni modo (nel 1630 organizzò persino un complotto ai danni del Cardinale che venne scoperto), perse ogni autorità e fu costretta agli arresti domiciliari a Compiègne (inizio 1631) e quindi mandata in esilio a Bruxelles.

[4] Musicato da Giulio Caccini.

[5] Sopra tutti il cardinale Cintio Aldobrandini.

[6] Pierre de Ronsard (Couture-sur-Loir, 1524 – Prieuré de Saint-Cosme, 1585), conosciuta come Il principe dei poeti, Nacque nel castello della Possonnière, il figlio minore di Loys e Jeanne de Chaudrier. Pierre ricevette un’educazione in casa durante l’infanzia e, una volta raggiunti i dodici anni d’età, venne mandato al Collegio di Navarra a Parigi. Per quanto privo d’esperienza, divenne prima paggio del Delfino del re di Francia, e poi del fratello, duca d’Orléans. Quando Madeleine di Francia sposò Giacomo V di Scozia, Ronsard fu preso a servizio del re e rimase tre anni in Gran Bretagna, per rientrare poi in Francia nel 1540 e riprendere il suo ruolo al seguito del Duca d’Orleans. Tale posizione gli permise di viaggiare, prima nelle Fiandre e poi nuovamente in Scozia. Ben presto venne promosso ad un ruolo di maggior peso. La sua promettente carriera diplomatica fu bruscamente interrotta da un attacco di sordità che nessun medico fu in grado di risolvere. Ronsard decise quindi di dedicarsi agli studi. Il periodo di studi di Ronsard durò sette anni e il primo manifesto del nuovo movimento letterario, che auspicava una letteratura che si rifacesse ai greci e ai latini, al neoplatonismo e al petrarchismo italiani, comparve nel 1549. L’influsso di Pindaro è evidente nelle Odi (1550), quello di Petrarca negli Amori (1552-55); mentre dalla sua spirazione al ruolo di poeta nazionale Nacquero gli Inni (1555) e il poema incompiuto La Franciade (1572).

[7] La Pléiade è stata la prima scuola letteraria francese, formata da un gruppo di sette poeti – Pierre de Ronsard (1524-1585), Joachim Du Bellay (1522-1560), Pontus de Tyard (1521-1605), Jean Antoine de Baïf (1532-1589), Étienne Jodelle (1532-1573), Guillaume Des Autels (1529-1581), Jean de la Péruse (1529-1554) – nel XVI secolo. Questi si ispirarono all’omonimo gruppo di sette tragici alessandrini del III sec. a.C.. Il nome fu stabilito da Pierre de Ronsard, con l’obiettivo di valorizzare la lingua francese, soprattutto contro il primato della lingua latina. Queste idee furono esposte da Joachim Du Bellay (amico del Ronsard) nella Défense et illustration de la langue française del 1549, insieme col proposito di restituire un prestigio altissimo alla poesia.

[8] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 294.

[9] Scritto per le nozze di Francesco, figlio del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, con Margherita di Savoia, questo melodramma (ancora più del Rapimento di Cefalo) prelude ai futuri capolavori del Metastasio.

[10] Anacreonte (Teo, 570 a.C. circa – Atene, 485 a.C. circa) combatté  contro l’invasione persiana della Ionia nel 545 a.C. circa, dovendo tuttavia abbandonare la patria insieme ai suoi concittadini a seguito della sconfitta. Dopo essersi rifugiato ad Abdera in Tracia, cominciò la sua carriera di poeta lirico e compose giambi, elegie e specialmente carmi melici, di cui ci restano 160 frammenti. Cantò l’amore e il convito, spesso con vena ironica. Sotto il suo nome ci sono anche state tramandate una sessantina di Odi dal carattere amoroso ed edonistico, che in realtà sono opera di alcuni imitatori in epoca alessandrina e forse persino successiva.

[11] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 283.

[12] Ricordiamo tra questi De Sanctis, Croce, Mannucci, Calcaterra.

[13] Ottavio Rinuccini (Firenze, 1562 – Firenze, 1621) poeta e letterato di nobili origini, fu membro dell’Accademia Fiorentina, e in seguito dell’Accademia degli Alterati, dove si discutevano varie teorie relative alla rappresentazione drammatica. A Rinuccini si devono i primi libretti della storia del melodramma. Sull’esempio di Tasso, Guarini, Chiabrera e della lirica francese, compose anche una raccolta di Poesie, pubblicate postume nel 1622.

[14] Pindaro (Cinocefale, 518 a.C. circa – Argo, 438 a.C. circa), discendente della nobilissima famiglia dorica degli Egidi, provenienti da Sparta, e fondatori del culto gentilizio di Apollo Carneo, originaria della Beozia, sarebbe stato un cantore dell’aristocrazia dell’epoca, allievo della poetessa Corinna e rivale di Mirtide: poeta itinerante, viaggiò a lungo e visse presso sovrani e famiglie importanti, per le quali scrisse. Famosi sono in quattro libri dei suoi Epinici, ma ci restano anche frammenti di inni, ditirambi e peani. Nella sua poesia sono frequenti i passaggi rapidi e allusivi da un tema all’altro, con nessi lirici, non logici (da cui voli pindarici) ed è alta la coscienza del ruolo del poeta come cantore per l’immortalità.

[15] Quinto Orazio Flacco (Venosa, 65 a.C. – Roma, 8 a.C.), figlio di un liberto, seguì un regolare corso di studi a Roma, sotto l’insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all’età di circa vent’anni, dove studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. Combatté come tribuno militare[2] nell’esercito repubblicano comandato da Bruto nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa dai cesaricidi e vinta da Ottaviano. Tuttavia sostenne poi la politica di Augusto, che celebrò nel Carmen saeculare, composto nel 17 a.C. Fu amico di Virgilio e di Mecenate, che gli donò una villa in Sabina. Epicureo moderato, fu il poeta dell’aurea mediocritas, ideale di equilibrio tra la capacità di rinuncia e piaceri immediati colti nel quotidiano, ispirati a un senso del presente, della vita fugace (carpe diem), di un tempo astorico in cui conta solo l’individuo. La sua opera più notevole è l’Ars poetica, che fu presa a canone per la composizione poetica nelle epoche successive.

[16] Nome tradizionale del componimento lirico destinato a celebrare una vittoria, e in particolare una vittoria nelle gare atletiche e nei concorsi di abilità tecnica. Nella storia della melica greca l’epinicio acquista la massima importanza per merito di Pindaro.

[17] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 295.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

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