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Marco Michelini | 26 Febbraio 2023

Grande sviluppo ebbe, nel corso del Seicento, la letteratura dialettale e popolaresca, che, diffusa anche nei secoli precedenti, assume ora una nuova e più valida fisionomia. Così come in Toscana s’era cercato, con l’uso del gergo fiorentino cittadino e contadinesco, di dare voce ad una letteratura burlesca fatta di giochi di doppi sensi, di mescolanze bizzarre di parole latine e italiane o di metri difficili e pieni di bisticci accentuati dall’uso raro di rime e “quantità” di origine classica (di cui s’è già ampiamente parlato), un’altra parte cospicua della letteratura del seicento «cerca di tradurre più coerentemente elementi e toni comici e satirici nel dialetto, considerato a ciò particolarmente adatto per la sua radice di popolarità e per la sua schiettezza realistica, anche se – sia ben chiaro – sempre si tratta di scrittori tutt’altro che incolti, e anzi esperti e spesso attivi anche in lingua italiana, ma ricorrenti alla lingua dialettale come ad un mezzo linguistico più libero e meno convenzionale, più ricco di risorse realistiche, e dunque per una scelta assai importante, come avverrà poi nel caso di grandi poeti dialettali come, nel primo Ottocento, il Porta e il Belli. E che tale letteratura dialettale abbia la sua prima maggiore diffusione nel Seicento prova come in alcune zone di quel secolo, per altri versi così ambiguo e falso, fermentassero germi di vera novità, legati ad una vitalità assai fertile, specie al livello della vita popolare, vibrante di propria forza immaginosa e realistica sotto la scorza della letteratura ufficiale e cortigiana.

Né certo la difesa del dialetto locale e della sua dignità letteraria è priva di significato nella vita del Seicento: più livellata anche linguisticamente nelle sue zone più ufficiali e auliche, più policentrica e varia nella realtà cittadina e popolare»[1].

Scrittori dialettali degni di nota furono i veneziani Gian Franco Busenello[2] e Marco Boschini; il siciliano Paolo Maura[3]; il lombardo De Lemene[4]; i romani Giuseppe Berneri e Giovanni Camillo Peresio[5]. Abbondante fu la produzione napoletana, che si avvale di un dialetto immaginoso ed esuberante, con scrittori di vaglia quali Giulio Cesare Cortese[6], Pompeo Sarnelli[7] e Filippo Sgruttendio[8].

Ma di grande valore è soprattutto Gian Battista Basile, autore del famoso Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de li peccerille, una delle maggiori opere della letteratura barocca, dove il dialetto e lo scherzo raggiungono toni realmente poetici. E, con lui, il bolognese Giulio Cesare Croce che offre, con il Bertoldo e Bertoldino, una ricca esperienza nell’ambito della letteratura popolaresca.

 

Giulio Cesare Croce

 

Le poche notizie sulla biografia di Giulio Cesare Croce si possono leggere nel capitolo Descrizione della vita, scritto dallo stesso autore nel 1586 e rivisto alla vigilia della morte, e anche negli atti di un processo per alcune beghe fra parenti. Nato a S. Giovanni in Persiceto, nel contado bolognese, il «dì di Carnevale» del 1550, fu avviato dal padre, un fabbro di «stirpe onesta» ma povera, agli studi («con pensier forsi un dì farmi dottore»). Rimasto orfano a soli sette anni, fu raccolto da uno zio paterno a Castelfranco e da questi rimesso di nuovo a scuola presso un «pedante». Ma trascorsi due anni di scarso profitto per gli studi, lo zio decise di far lavorare il nipote nella bottega come apprendista, e lo condusse poi con sé quando, per motivi economici, si trasferì con la famiglia a Medicina, in un casale di proprietà dei Fantuzzi, ricchi proprietari terrieri di Bologna. In questo periodo il giovinetto, che aveva già compiuto i dodici anni, si rivelò «poeta campestre», intrattenendo e rallegrando i padroni che si recavano durante il periodo estivo nella loro villa, vicina alla dimora dei Croce.

Nel 1586, abbandonata la campagna, si recò a Bologna, dove trovò un lavoro presso un fabbro comprensivo e gentile; qui, nelle ore di ozio, gli fu possibile leggere alcuni libri, tra cui l’Orlando furioso e, soprattutto, una traduzione di Ovidio, che lo convertì del tutto alla poesia. Abbandonò così il lavoro e si dedicò completamente all’arte di strada, nonostante gli stenti economici, acquistandosi presto una certa notorietà per le sue «filastrocche », che era solito accompagnare col suono del violino.

Essendo rimasto vedovo con sette figli ed avendone avuti altrettanti dalla seconda moglie, il Croce fu costretto a riprendere il lavoro di fabbro. Non tralasciò, tuttavia, la sua attività di cantastorie e di poeta buffonesco, componendo «alla carlona», e fino a «sfiancarsi» per ottenere qualche guadagno. Il pubblico bolognese apprezzava i «capricci» di quest’autore, libero tanto da dire «pane al pane e pero al pero», rivolto ad un mondo che «si regge a la roversa» e capace di cogliere quella «gabbia di matti» con un gusto originale, senza però alcun intento eversivo. Il Croce si spense nel 1609 (tre anni dopo la pubblicazione del Bertoldo e del Bertoldino), afflitto dalla miseria e dalle preoccupazioni.

La sua prima produzione (in gran parte ancora conservata), composta per il pubblico improvvisato delle piazze bolognesi, spesso scritta su opuscoli che il cantastorie vendeva al suo uditorio, comprende dialoghi, canzoni, enigmi, lamenti, barzellette, contrasti di innamorati, «inviti» alle feste contadine, «intrighi», «travagli». Ma l’impegno letterario del Croce autodidatta si ravvisa soprattutto in alcuni componimenti burchielleschi, rime sacre, tragedie, novelle, poemi storici e avventurosi, esercitazioni sull’Orlando Furioso (Rime spirituali e devote a imitazione del primo canto dell’Ariosto, Diporto piacevole), operette per lo più manoscritte. Anche il teatro doveva interessarlo: oltre alle commedie Il Sandrone astuto e La Bernarda, e la farsa in maschera, in dialetto bolognese, Il vanto di dui villani cioè Sandron e Burtlin sopra l’astuzie tenute da essi nel vender le castellate quest’anno (Bologna 1607), ottenne grande successo con la commedia La Farinella (Bologna 1609), dove motivi tradizionali – la tematica dell’amore contrastato e il lieto fine – sono giocati su un attento pluralismo linguistico.

Nel 1606, ormai anziano, il Croce pubblicò la sua opera più importante, Le sottilissime astuzie di Bertoldo, che venne ristampata nel 1608 insieme con Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino. Ispiratosi al Dialogus Salomonis et Marcolphi, un’antica leggenda di origine medievale, molto diffusa dopo il Quattrocento, il Croce rielaborò la vicenda tratteggiando, in un linguaggio tra il letterario e il volgare emiliano, il personaggio del mitico contadino Bertoldo «accorto e astuto e di sottilissimo ingegno», della saggia moglie Marcolfa e dello stupido figlio Bertoldino, creando così il romanzo della vita della campagna, colta nella miseria e nella fatica della sua gente.

 

Giambattista Basile

 

Nato a Napoli intorno al 1575 da una famiglia numerosa, lasciò la città natale, e, dopo aver peregrinato a lungo per tutta l’Italia; si fermò a Venezia, dove si arruolò nell’esercito della Repubblica. Inviato col suo reggimento a Candia, minacciata dai Turchi, in quest’isola il Basile ebbe modo di conoscere Andrea Cornaro[9], che lo introdusse, col nome di «Pigro», nell’Accademia degli Stravaganti, da lui fondata; e nel 1607 partecipò con successo ad una campagna navale sotto il comando del futuro doge Giovanni Bembo[10].

I primi documenti della sua produzione letteraria risalgono al 1604, anno in cui scrisse alcune lettere (come prefazione alla Vaiasseide) all’amico e letterato napoletano Giulio Cesare Cortese. L’anno seguente venne messa in musica la sua villanella Smorza crudel amore. Rientrato a Napoli nel 1608, pubblicò il poemetto Il pianto della Vergine (imitazione delle Lagrime di S. Pietro del Tansillo). Nel 1611 fu introdotto dalla sorella Adriana, celebre cantante dell’epoca, nella corte del principe di Stigliano, Luigi Carafa[11], al quale dedicò un testo teatrale, Le avventurose disavventure; e poi, sempre al seguito della sorella, fu invitato a Mantova dal duca Vincenzo Gonzaga, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi. Ma il soggiorno del Basile a Mantova durò pochi mesi fra il 1612 e il 1613: il suo rapido ritorno a Napoli fu forse dovuto alle sue condizioni di salute. Nella città lombarda curò la prima edizione delle rime di Galeazzo di Tarsia e fece stampare madrigali dedicati alla sorella, odi, le Egloghe amorose e lugubri, la seconda edizione riveduta e ampliata de Il pianto della Vergine e il dramma in cinque atti La Venere addolorata.

Rientrato quindi a Napoli sul finire del 1613, riprese le sue funzioni di cortigiano e di amministratore, venendo incaricato ora dai viceré spagnoli ora dai signori del luogo di reggere questo o quel comune della provincia: nel 1615 reggente a Montemarano (Avellino); nel 1617 gentiluomo del Marchese di Trevico, Cecco di Loffredo; nel 1618 favorito del principe Marino Caracciolo, e l’anno seguente da questi eletto governatore d’Avellino; nel 1621-22 governatore regio a Lagolibero (Lagonegro), in Basilicata.

Nel 1626 il Basile raggiunse il culmine della sua ascesa cortigiana, quando il duca d’Alba, don Antonio Alvarez di Toledo[12], gli concesse il governo di Aversa; e a lui lo scrittore dedicò cinquanta Ode di argomento amoroso ed eroico, pubblicate nel 1627. Nominato nel 1631 governatore della terra di Giugliano dal duca di Acerenza, Galeazzo Francesco Pinelli, in quella località il nostro autore morì improvvisamente il 23 febbraio dell’anno seguente.

Come abbiamo visto, il Basile ripercorre, nella sua prima produzione, i momenti canonici del letterato seicentesco, del poeta cortigiano e alla moda. Al periodo successivo, quello della carriera amministrativa, appartengono L’Aretusa, idillio composto nel 1619 ad Avellino; Il guerriero amante (1620), malinconica storia di un amore infelice; le Imagini delle più belle dame napolitane ritratte da’ lor propri nomi in tanti anagrammi (1624); e il Teagene (pubblicato postumo nel 1637, a Roma, dalla sorella Adriana), poema epico, tratto dalla Storia etiopica di Eliodoro[13].

Ma la vena più autentica del Basile si deve ricercare in quelle opere in dialetto che, mentre continuano il lavoro già iniziato da Giulio Cesare Cortese, se ne distinguono per una sorta di ricchezza lessicale e per una loro vivacissima fisionomia. Al 1604 risalgono due lettere in prosa inviate al Cortese; e per l’opera di questi, la Vaiasseide, il Basile nel 1612 scrisse – come s’è detto – una lettera come dedica (Allo re delli viente). La sua poesia raggiunse, però, valori artistici profondi nelle Muse napoletane (1635), nove egloghe a struttura dialogica, composte per «regolare le passeiune dell’anemo» e, nello stesso tempo, per ricercare «tutte le forme de lo parlare napoletano». Dedicate ognuna ad una Musa, le egloghe presentano dei sottotitoli riferiti ai personaggi o ai temi trattati (Clio overo li Smargiasse; Euterpe overo la Cortisciana; Talia overo lo Cerriglio; Melpomene overo le Fonnacchiere; Tersicore overo la Zita; Erato overo lo giovane ’nzoraturo; Polinnia overo lo viecchio ’nnamurato; Urania overo lo Sfuorgio; Caliope overo la Museca), attraverso i quali il poeta raffigura il colorito e folcloristico ambiente popolare napoletano nei multiformi aspetti della sua vita: prostitute, ladri, bravi, falsari, comari, arricchiti si succedono sulla scena dell’opera, nelle loro più realistiche dimensioni.

Contemporaneamente alle Muse, lo scrittore componeva Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de li peccerille, raccolta di fiabe, pubblicata postuma tra il 1634 e il 1636, in cinque volumetti separati, con il nome anagrammatico di Gian Alesio Abbattutis. Quest’ultima opera, che ottenne nel corso dei secoli grande successo («il più bel libro italiano barocco», secondo il Croce, che ne fece anche una traduzione italiana), mentre attribuì essenzialmente fama di poeta al Basile, è oggi di estremo interesse per quell’unione, raffinatissima, di dialetto e stile letterario e, al di là del valore stilistico, per il molteplice senso del reale che, proprio attraverso la trasfigurazione della fiaba, in essa appare.

L’opera è una raccolta di cinquanta favole popolari che si immaginano narrate da dieci vecchiette. La cornice stessa, che lega tra loro i racconti, ha una struttura fiabesca: la principessa Zoza, figlia del re di Vallepelosa, è di natura così melanconica che niente riesce a farla ridere. Ma un giorno, mentre è alla finestra, assistendo ad un diverbio tra una vecchia ed un ragazzo, la principessa scoppia a ridere per la prima volta in vita sua. La vecchia, allora, le lancia una maledizione: essa potrà sposare soltanto il principe di Camporotondo. Zoza, messasi in viaggio con tre oggetti incantati, trova il principe; ma questi, condannato a sua volta ad un sonno perenne, può risvegliarsi solo se una donna, dopo aver pianto per tre giorni, riempirà un’anfora di lacrime. Zoza piange per due giorni, poi per la fatica si addormenta. Ne approfitta una schiava mora che finisce di riempire l’anfora, sposando così il principe, che intanto si è svegliato. Ma Zoza con un espediente magico fa nascere nella rivale un desiderio morboso di ascoltare favole; da qui il pretesto del narrare: il principe sceglie dieci vecchiette a cui far raccontare le novelle per la moglie, che è in attesa di un figlio. Ma dopo quarantanove racconti si inserisce Zoza che, narrando la propria storia, smaschera l’ingannatrice; il principe, indignato, non esita ad uccidere la moglie e sposa poi la principessa.

Dunque l’ultimo racconto, secondo gli schemi della novellistica orientale, è la vicenda stessa della cornice (da qui il titolo Lo cunto de li cunti). Le giornate, in cui è divisa l’opera, sono cinque, e ciascuna è composta da dieci novelle e da un’egloga. La struttura esterna sembra riprendere i modelli del Decamerone (per questo l’opera venne indicata col titolo di Pentamerone); ma il gusto barocco per la novità capricciosa e il bizzarro produce un voluto capovolgimento, per cui alla nobile società decameroniana, giovane ed elegante, si sostituiscono grottesche novellatrici, tutte rappresentate con un difetto fisico ridicolo o ripugnante. E nello stesso modo alla positività di certi valori umani (l’astuzia, l’intelligenza, l’abilità, il coraggio) si sostituisce la fortuna o il caso immotivato e irragionevole, al mondo degli uomini quello della magia, dove i fatti si capovolgono e si scompongono in una molteplice orgia immaginativa, secondo le più irrazionali categorie del «meraviglioso».

Nelle favole elementi fantastici e sorprendenti coesistono con fatti familiari e quotidiani; così come anche accanto ai tipi del mondo fiabesco (orchi, maghe, folletti, animali con connotazioni umane) agiscono personaggi realistici (contadini, parassiti, soldati, mercanti, popolani), ma tutti soggetti al grande disegno della bizzarria magica, che compone e dispone le fila delle vicende attraverso un gioco, essenzialmente barocco, di fatti sorprendenti, fruiti spesso per il «lieto fine» della novella (in questa dimensione si inserisce anche la crudeltà delle decisioni riparatrici che rientrano, peraltro, nell’etica rigorosa dell’autore stesso). C’è, in ultimo, il pluralismo prospettico della civiltà seicentesca, in cui il reale, che ha perso le sue precise connotazioni, si moltiplica in una sorprendente proliferazione di eventi e compare, qui ancora maggiormente attraverso la mediazione fiabesca, nella miriade delle sue sfaccettature, in una perenne metamorfosi dove gli esiti sono a volte imprevisti. D’altronde anche le egloghe che chiudono le giornate, recitate nella reggia del principe di Camporotondo, esprimono il senso smarrito di una vita instabile: La coppella, sull’apparenza e la realtà; La tintura, ancora sull’inganno dell’apparenza; La stufa, sulla noia della vita; La volpara o l’uncino, sulla cupidigia.

La lingua de Lo cunto de li cunti è quella di una prosa dialettale elegante, raffinata ed estremamente calcolata: c’è la fusione, dunque, di letteratura e dialetto, attraverso l’operazione stilistica di uno scrittore colto e di un filologo attento, quale era il Basile. Persino il linguaggio, poi, ricco di catene lessicali, metafore e calchi proverbiali esprime quella molteplice visione del mondo, dove la casualità, l’anarchia e l’arbitrio sembrano essersi sostituiti alla razionalità e all’ordine: emblematica opera della civiltà barocca, coinvolta nella instabilità e nella frantumazione di ogni norma e di ogni certezza.

 

Marco Boschini

 

Marco Boschini (Venezia, 1602 – Venezia, 1681), studiò pittura nella bottega di Palma il Giovane[14], ed imparò l’arte dell’intaglio da Odoardo Fialetti[15]. Esercitò varie attività, ma la sua vera professione era comunque quella di commerciante di perle false e conterie di vetro, anche se spesso veniva richiesto per stime in occasione di eredità, o quale esperto e mediatore per la vendita e l’esportazione di opere d’arte.

Il Boschini deve comunque la sua fama alla sua attività di scrittore. Arguto, colto, fine critico, dotato di forza espressiva, lessico preciso, acutezza e sintassi accattivante, fu autore di diverse pubblicazioni: Regno tutto di Candia delineato, e parte a parte intagliato (1651); La Carta del navegar pitoresco (1660), in versi, sulle bellezze pittoriche di Venezia; Le miniere della pittura (1664) e Le ricche miniere della pittura veneziana (1674), due guide di Venezia; I gioielli pittoreschi. Virtuoso ornamento della città di Vicenza (1676), guida alla città di Vicenza.

Il suo scritto più importante è comunque La Carta del navegar pitoresco, che è una delle opere più originali della letteratura veneziana e nella quale l’autore si dimostra non solo provvisto di conoscenza vasta e documentata sulla pittura veneta e straniera, ma anche di sapiente giudizio critico. Il poema, a struttura dialogica, è diviso in otto canti (i «Venti»), in dialetto veneziano. Nella realistica cornice di una Venezia popolata di «barcaioli», gondolieri, facchini – ma non è questo il motivo più autentico dell’opera – durante alcune passeggiate in gondola, un «professor de pitura intendente» (dietro cui si cela l’autore stesso) e un senatore «deletante» celebrano i capolavori artistici di Venezia. L’ultimo «vento» comprende poi una serie di progetti di opere che gli artisti dovranno eseguire per commissione. Il registro dialettale diventa il mezzo espressivo più adatto per rappresentare la concezione pittorica del Boschini. Mentre il dialetto stesso crea una nuova ed espressiva vivacità nel rapido susseguirsi di immagini, articolate nell’ambito del più complesso linguaggio barocco.

 

Giuseppe Berneri

 

Nato a Roma nel 1634, non si hanno notizie sulla sua formazione culturale. Fu, fino alla morte, segretario dell’Accademia romana degli Infecondi, la quale, fiorita all’ombra della famiglia Rospigliosi, aggiungeva alla tradizione di un teatro squallidamente edificante commedie per musica, intermezzi, opere sceniche morali, che emulavano grevemente l’operazione controriformista portata avanti dai gesuiti. Ed in quest’ottica il Berneri si occupò soprattutto di teatro come autore, regista e attore. Si spense a Roma nel 1701.

Scrittore in italiano e in latino, il Berneri, uomo di teatro, compose numerosi drammi, per lo più sacri, tra cui: Le felicità ricercata (1673); l’opera sacra La Susanna vergine e martire (1675); il dramma morale La verità conosciuta (1676); L’onestà riconosciuta in Genuefa, che fu poi santa in questo nome (1677); il dramma recitativo Tutti un ramo han di pazzia (1680); I sensi disingannati della ragione (1681); Il pentimento glorioso di Egidio (1682); la tragedia sacra Li sacri eroi del Giappone (1683); La conversione di S. Agostino (1687). In latino rimangono il poema Ludus qui vulgo dicitur la «Cannafiendola» e le Morum quae apud romanos vigent descriptiones, recitate davanti agli Infecondi.

Ma nessuna di queste opere gli dette fama come il poema «giocoso» in dialetto romanesco Il Meo Patacca overo Roma in feste nei trionfi di Vienna, edito a Roma nel 1695 e da cui lo stesso autore trasse nel 1701 l’Intermedio nuovo, «da recitarsi in qualsivoglia commedia e ricreazione». In dodici lunghi canti, in ottave, il Berneri narra la vicenda del capopopolo Meo Patacca, violento ma generoso verso i deboli, che nel 1683, giunta a Roma la notizia dell’invasione turca di Vienna, decide con i fondi raccolti tra la nobiltà cittadina di organizzare un esercito per intervenire in difesa della cristianità, nonostante l’opposizione di Nuccia, la sua donna. Ma avvenuta la vittoria prima dell’intervento dei cinquecento «bulli» reclutati, Meo Patacca decide che i soldi raccolti vengano adoperati per banchetti e feste pubbliche, che diventano subito pretesto di sfrenate manifestazioni popolari (come l’assalto al ghetto o la caccia all’ebreo), dove solo l’intervento del protagonista evita esiti tragici.

La lingua usata dal Berneri è un dialetto italianizzato con un preciso intento parodico; e accurata è la ricerca del ritmo e delle consonanze. L’uso letterario dell’espressione popolare, fruita con calcolata e ricercata eleganza, si riduce allora ad un compiaciuto impasto stilistico e linguistico.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 289.

[2] Giovanni Francesco Busenello (Venezia, 1598 – Legnaro, 1659), librettista e poeta satirico dialettale, nacque da Alessandro e da Laura Muscorno, in una famiglia ricca e influente. Fece buoni studi, prima sotto la guida del padre, poi alle lezioni del Sarpi e infine nell’università di Padova, dove probabilmente si laureò in legge. Nel 1620 tornò a Venezia dove si sposò con Barbara di Pier Antonio Bianchi, e dal matrimonio nacquero almeno cinque figli. Nel 1623 cominciò a professare l’avvocatura, professione che svolse con grande successo. Contemporaneamente si dedicò allo studio delle lettere e fu ammesso a varie accademie letterarie: i Delfici, gli Umoristi, gli Imperfetti e l’Accademia degli Incogniti, della quale fecero parte i più importanti intellettuali che dominavano l’attività letteraria veneziana. Sostenitore di Giovan Battista Marino, Busenello ha lasciato una vastissima quantità di opere letterarie, che comprende idilli pastorali di gusto mariniano, poesie civili, encomiastiche, morali, rime in dialetto veneziano, cinque libretti per melodrammi (musicati da Cavalli e Monteverdi) e romanzi. Questa irrefrenabile attività letteraria se per un verso impedì al Nostro di rifinire e render più incisiva la sua opera, per un altro verso ne fece un testimone vivacemente rappresentativo del costume e della vita pubblica e privata nella Venezia del tempo. Caratteristica primaria del tono e dello stile è una sorta di conversazione svagata e verbosa, che è insieme il suo pregio e il suo limite.

[3] Paolo Maura (Mineo, 1638 – Mineo, 1711) nacque da Carlo e Petra Maura, in una famiglia agiata, appartenente alla classe dei piccoli proprietari terrieri o dei professionisti cittadini. Frequentò il collegio gesuitico menenino, ove convenivano molti giovani da ogni parte dell’isola per studiarvi retorica. Fu un uomo raffinato e le sue citazioni classiche, mitologiche, dantesche e la preparazione retorica dimostrano un discreto retroterra culturale. Si attorniò di amici di grande prestigio come il barone Orazio Capuana e il Rettore del Collegio dei Gesuiti. Verso i ventisette anni si innamorò di una nobile fanciulla appartenente nobile e ricca famiglia Maniscalco, una delle più potenti dell’epoca. La famiglia della ragazza, per paura di una fuga, la costringe a chiudersi in un convento di clausura. Secondo la tradizione il Maura tentò di penetrare di nascosto nell’edificio sacro e per questo venne arrestato e condotto prima nel carcere del castello di Piazza Armerina e poi alla Vicaria di Palermo. Dopo alcuni anni trascorsi tra “pene” e sofferenze inenarrabili venne scarcerato, pare, nel 1673 grazie ad un componimento di condanna alla rivolta della città di Messina del 1672. Sempre nel 1673 sposò Doralice Limoli, figlia di Claudio e Agrippina Limoli. Purtroppo, dopo un breve periodo di serenità, la vita del Maura venne funestata da nuove sofferenze a causa della morte della moglie, alla quale dedicherà post mortem dedicherà dei versi ricchi di delicatezza, dal triste sapore amaro. Maura scrisse soprattutto in vernacolo siciliano e la forma che predilesse fu l’ottava siciliana. In lingua toscana si è tramandato un lungo componimento strutturato in venti quartine dedicato a Maria Vergine (Ave Maria). Tra i componimenti che ci sono giunti si trova anche una terzina in latino. L’opera più significativa resta, comunque, La Pigghiata, un poemetto in terza rima in forma epistolare e d’impronta schiettamente autobiografica.

[4] Francesco De Lemene (Lodi, 1634 – Lodi, 1704) nacque dal conte Antonio e da Apollonia Garati. Il casato paterno era tra i più nobili e antichi della città. Fu avviato agli studi nella città natale da precettori religiosi e, appena dodicenne, redasse una versione poetica del Guerrin meschino di Andrea Mangiabotti da Barberino. studiò all’Università di Bologna e di Pavia, dove si laureò nel 1655. Fu successivamente impiegato nell’allora amministrazione spagnola dapprima come pubblico oratore a Milano e poi come decurione a Lodi. Nel 1661 soggiornò a Roma, dove frequentò spesso il circolo di Cristina di Svezia. Fu a Roma che iniziò la sua attività di librettista. Nel 1691 entrò con il nome di Arezio Gateatico nell’Accademia dell’Arcadia. Artisticamente parlando, De Lemene risente dell’influenza del Marino e del commediografo Carlo Maria Maggi; infatti i suoi testi tendono ad avere un carattere eroicomico. Altro sintomo dell’influenza del Maggi è la produzione del De Lemene in lingua lombarda, nella sua variante lodigiana, nella quale scrive la commedia La sposa Francesca (documento curioso nella storia del nostro teatro, ove, almeno a tratti, compare una reale vivezza comica) e opera una sua personale traduzione della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.

[5] Giovanni Camillo Peresio (Roma, 1628 – Roma, 1696) fu autore del poema eroicomico romanesco in dodici canti di ottave classiche Il Maggio Romanesco overo il Palio Conquistato, Poema Epicogiocoso nel Linguaggio del Volgo di Roma (1688), dedicato al giovane principe Francesco Maria de’ Medici. L’opera era in realtà la rielaborazione di un precedente poema romanesco del Peresio, Il Jacaccio overo il Palio Conquistato, il quale narra le vicende di alcuni popolani che nella Roma di Cola di Rienzo si contendono il Palio fissato durante la festa del Maggio sopra un tronco d’albero. Ricalcando in più punti e parodiando il modello ariostesco e la sua tecnica dell’entrelacement (ma con in mente anche l’esempio della Secchia rapita di Tassoni), l’opera sostituisce i paladini con dei bravacci e i duelli con risse, baruffe e sassaiole. Le situazioni descritte sono comiche e l’elemento magico, già presente nel Furioso, è parodiato assieme a tutto il resto.

[6] Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1575 ca – Napoli, 1622) nacque da Fabio, conservatore alle farine, e da Giuditta Borrello. Poco si sa della sua vita: compagno di scuola, poi amico fraterno e ispiratore di Giambattista Basile, si addottorò in giurisprudenza nel 1597. Attorno al 1600 fu in Spagna e poi a Firenze, alla corte di Ferdinando de’ Medici, e dal 1604 in poi, salvo brevi parentesi, visse sempre a Napoli, ove morì. Indotto, come il Basile, alla poesia dialettale dalla reazione determinatasi a Napoli a principio del Seicento contro la poesia ufficiale e aulica irradiantesi dalla Toscana, anche in lui, quantunque a volte verseggiasse per mero accademismo d’arte dialettale, l’abbondante comicità si congiunge senza sforzo tanto all’affetto per le vecchie costumanze patrie, per i luoghi, per le leggende, per le fiabe, per i canti della città natia, quanto a una viva penetrazione della vita popolare. Le sue opere più notevoli sono La Vaiasseide (1615), in 5 canti in ottava rima, nei quali, tra l’altro, si descrivono scene d’amore, di gelosia, feste, matrimonî del popolino napoletano; il Micco Passaro, poemetto in dieci canti in ottava rima (1621) che ci presenta le imprese di un guappo napoletano.

[7] Pompeo Sarnelli (Polignano a Mare, 1649 – Bisceglie, 1724) nacque da Francesco, ufficiale dell’esercito napoletano, e da Maddalena Lepore. All’età di quattordici anni, il forte interesse verso gli studi ne provocò la fuga di casa verso la capitale partenopea, dove proseguì gli studi sotto la guida di autorevoli maestri, e nel 1672 venne ordinato sacerdote. Non ancora trentenne, fu insignito del titolo di Protonotario Apostolico ed aggregato all’Accademia degli Spensierati di Rossano. In questo periodo il cardinale Pietro Francesco Maria Orsini, futuro Benedetto XIII, ebbe modo di conoscere le doti intellettuali del Sarnelli, e apprezzandone l’acume e l’ingegno lo nominò suo aiutante di studio. Nel 1692 fu creato vescovo di Bisceglie e in quella diocesi rimase fino alla morte. Scrittore di vasta erudizione, nella sua vita scrisse e diede alle stampe ben oltre 59 opere, tra le quali una graziosa imitazione, in dialetto napoletano, del Cunto de li cunti del Basile, La Posillecheata (1684), raccolta di cinque favole legate, come cornice, dall’espediente poetico di una gita a Posillipo.

[8] Filippo Sgruttendio de Scafato pubblicò nel 1646 un canzoniere dialettale prevalentemente burlesco dal titolo La tiorba a taccone, quale sia però la reale identità di questo personaggio dallo pseudonimo sicuramente anagrammatico ancora oggi non ci è dato saperlo. L’opera consta di 189 testi fra sonetti, canzoni e ballate in dialetto napoletano e già dal titolo rivelava gli intenti parodici che ne avevano determinato la composizione, alludendo allo strumento musicale pizzicato da un plettro di cuoio, sorta di versione popolaresca della di poco precedente lira del Marino. Suddivisa in dieci sezioni denominate “corde” (come quelle dello strumento), la Tiorba operava un ribaltamento in chiave comico-giocosa degli aulici canzonieri dei petrarchisti, cantando una popolana, Cecca (caricatura della Laura petrarchesca), che aveva la faccia tonna comme a no pallone, gli occhi di arpia e la gotta. Dal canto suo il poeta dichiarava di essersene innamorato dopo aver rimediato una “zoccolata”, e non perché ferito da un dardo che gli trapassava gli occhi e raggiungeva il cuore, come voleva la consueta fenomenologia amorosa.

[9] Andrea Corner o Cornaro (Trapezonta, 1547 – Candia, 1616) era figlio di Giacomo Corner (nobile veneziano) e di Issaveta (Zampia) Demezo. Si sposò due volte, prima con Carnarola Zen, fino alla sua morte, e poi con Anezina Zen. Servì come comandante in una galea, e all’età di 24 anni partecipò alla battaglia di Lepanto con la sua galea Cristo. Il suo feudo comprendeva i villaggi di Voni, Zoofori e Thrapsano, oggi nella prefettura di Iraklion (Candia). Nel 1591 fondò l’Accademia filologica degli Stravaganti a Candia. Scrisse centinaia di poesie in lingua italiana e anche una Historia Candiana.

[10] Giovanni Bembo (Venezia, 21 agosto 1543 – Venezia, 16 marzo 1618), secondogenito di Agostino Bembo e di Chiara Del Basso, apparteneva ad una della casate patrizie più antiche di Venezia, il cui palazzo affaccia sul Canal Grande. La situazione economica della casata, non più florida come un tempo, si stava risollevando grazie alle sostanze del nonno materno Bonadio, un ricchissimo mercante di origini bergamasche. Coraggiosissimo, tanto che s’era arruolato in un equipaggio di galea a soli undici anni, Giovanni Bembo si costruì fama di capace uomo d’armi distinguendosi nella battaglia di Lepanto, e nelle guerre contro l’Impero asburgico e l’Impero spagnolo. Nel 1615 divenne il novantaduesimo Doge della Repubblica di Venezia e, nonostante le sue non perfette condizioni di salute, governò con decisione e risolutezza, fronteggiando la grave minaccia per Venezia costituita dalla Casa d’Asburgo.

[11] Luigi Carafa della Stadera (1567 – Napoli, 1630) era il figlio maschio primogenito di Antonio Carafa della Stadera, III principe di Stigliano e III duca di Mondragone, e di Giovanna Colonna. Ebbe come precettore il famoso poeta capuano Giovan Battista Attendolo, e insieme a lui fu comprimario de Il Carrafa o vero della epica poesia, dialogo di Camillo Pellegrino pubblicato a Firenze nel novembre 1584 e primo testo della celebre querelle letteraria che volle stabilire chi tra Ariosto e Tasso fosse stato il maggior poeta epico. Nel 1584 sposò a Bozzolo Isabella Gonzaga, unica figlia sopravvissuta ed unica erede di Vespasiano I Gonzaga, duca di Sabbioneta. La coppia ebbe un unico figlio, Antonio, che premorì ad entrambi i genitori.

[12] Antonio Alvarez di Toledo (Antonio Álvarez de Toledo y Beaumont de Navarra; 1568 – 1639), fu il V duca di Alba de Tormes, II duca di Huéscar, marchese di Coria, VI conte di Lerín e connestabile di Navarra, V conte di Salvatierra de Tormes, Grande di Spagna e Maggiordomo maggiore del Re Filippo IV. Nel 1599 Filippo III gli conferì anche il titolo di Toson d’Oro. Nel 1622 divenne viceré di Napoli e mantenne l’incarico fino al 1629.

[13] Eliodoro di Emesa fu uno scrittore greco antico del III o IV secolo, principalmente conosciuto come l’autore di un romanzo in dieci libri, le Storie Etiopiche (noto anche col titolo Teagene e Cariclea). Il romanzo narra gli amori della figlia del re d’Etiopia Cariclea e del greco Teagene attraverso varie disavventure e narrazioni eccentriche, ed è stata sempre considerata come uno dei migliori romanzi greci conservatisi.

[14] Jacopo Negretti, o anche Giacomo, detto Palma il Giovane per distinguerlo dal prozio Jacopo Palma il Vecchio (Venezia, 1549 – Venezia, 1628) nacque da Antonio Palma, pittore, e Giulia Brunello, appartenenti a famiglie dalla spiccata indole artistica. Fu subito iniziato agli studi pittorici sulle orme dello zio del padre, Palma il Vecchio, e del marito della zia materna, Bonifacio Veronese. Nel 1564 il duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere, in visita a Venezia, apprezzando le doti artistiche di Jacopo, lo invitò dapprima a corte e in seguito, nel maggio 1567, lo inviò quattro anni a Roma, ospite del suo ambasciatore Traiano Mario. Studiò e subì l’influenza di Raffaello e Tintoretto, ed eseguì varie copie di Tiziano, suo vero maestro, col quale in seguito collaborò, portandone anche a termine il celebre dipinto La Pietà.

[15] Odoardo Fialetti (Bologna, 1573 – Venezia, 1637 o 1638) nato dopo la morte del padre, venne affidato al fratello che a nove anni seguì a Padova e poi a Venezia, dove si formò presso la bottega del Tintoretto. I suoi pochi dipinti che ci sono rimasti mostrano come il Fialetti, pur basandosi sulla lezione tintorettiana, fosse influenzato anche dall’arte emiliana (Calvaert, Procaccini, Parmigianino, Carracci), nonché dallo stile dei Bassano. La sua pittura è dunque una sintesi tra la scuola veneta e la scuola bolognese. Ben più importante la sua attività di acquafortista della quale si conservano tuttora circa 240 opere in cui sono evidentissimi i richiami carracceschi, specie di Agostino. La sua produzione, che riguarda sia traduzioni che soggetti di propria invenzione, spazia dal tema religioso al grottesco e al mitologico. Le sue realizzazioni furono largamente utilizzate come modelli da intagliatori e ornatisti, e ancora nell’Ottocento venivano riprodotte sulle ceramiche di Nevers.


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